martedì 24 aprile 2012

Il non vivere.

Ce n'est rien mourir. C'est affreux de ne pas vivre. V. Hugo

Il pullman è arrivato in ritardo. E’ stracolmo.
Per qualche momento penso di lasciarlo andare poi, con uno slancio improvviso , monto su. La borsa è terribilmente pesante , zeppa di libri.
I posti sono tutti occupati dagli studenti. Mi faccio largo tra i loro sguardi impauriti.
I loro occhi parlano e mi ricordano me. Uno di essi mi riconosce e con garbo mi cede il posto.
Io abbozzo un sorriso che somiglia a una smorfia , è quasi grottesca. Mi guardo riflesso nel finestrino e la mia immagine si sovrappone a quella delle auto e dei passanti.

-          Ha una brutta cera , professore. Tutto bene?-

Guardo il mio inquisitore. S’aspetta una risposta. Inizio a scrutarlo.
Capisce prima che io possa parlare. Si scusa.

Il bus si va svuotando e io mi immergo in un ventaglio di fogli su cui ho scarabocchiato mille appunti. Fuori fa caldo e l’aria condizionata non impedisce al sudore di imperlarmi la fronte. Allento la cravatta e trovo ristoro.

Francesco non è stanco neppure dopo sei ore di lezione. Mi salta addosso e nonostante il caldo lo prendo sulle gambe. Gli chiedo come sia andata e lui mugugna. Ci siamo capiti , allora io evito di parlare e lui pure.
Si siede accanto a me e mi guarda. Scruta le mie labbra. Poi col suo ditino mi spinge il naso e inizia a mitragliare.
-          Hai fumato? Hai fumato? Pà! Hai fumato! Avevi detto alla mamma che non avresti fumato, che stavi smettendo! Sei bugiardo!-
Francesco è un ispettore implacabile. Non provo neppure a replicare. Agguanto il manico della mia borsa e la porto fin su al mento. La stringo forte e snodo ancora un po’ la cravatta.
Ha degli occhi meravigliosi. La sua bellezza è indescrivibile. Sono gli stessi occhi di Elisa.
Mi scrutano , penetrano il mio sguardo e io resto nudo. Cerco parole e gesti per dirgli che l’amo ma non ne trovo. Elisa ha ragione , l’università ha gelato ogni istinto.
Quando eravamo studenti era tutto diverso. Vivevamo di passioni. Elisa le conserva tutte ,io le perdo ogni giorno.
-          Sei triste, papà? Non dovresti. Oggi è una grande giornata!Oggi mi aiuti con il tema?-
Chino il capo in un cenno di assenso ma resto muto. Mio figlio mendica parole e io gliele nego. Mi viene da ridere ma dentro vorrei piangere perché di fuori non so farlo.
Quando il bus si ferma mi precipito sul marciapiede e cammino serrato verso casa. Intorno a me la città è una fornace . E’ quasi giugno e io sono avvolto in una camicia di flanella. Me ne sono accorto a metà mattinata. Elisa non mi aveva mai spiegato come riconoscere le camice e io non ho saputo imparare da solo.
Trovo un po’ di refrigerio nel cortile.
-Non ho avuto tempo di preparare nulla. A Francesco preparo della pasta , per noi andrà bene un panino-
Mi stendo sul divano, la mia testa sprofonda tra i cuscini. I miei sensi sono ovattati. Sento lontano il vociare della strada affollata su cui si affaccia la casa.
Elisa insegna molto meglio di me. Lei conquista i suoi allievi , io , nella mia vita, non ho conquistato che professori. Quando ottenni la cattedra lei mi disse fulminea : “Non sarai mai un grande professore, l’insegnamento non fa per te. Continua a studiare. Ti ricorderanno per i tuoi libri.” Aveva ragione.
Mi rimetto in piedi e mi guardo in torno , sono assalito dal gelo di questa casa. Fuori è primavera mentre qui dentro l’inverno non finisce mai .Torno a sedere sul divano. Agguanto un cd che m’ha regalato mia sorella e quando la musica parte finalmente trovo il coraggio di parlare a Francesco. E a Elisa.

Ci sono voluti due anni e tre mesi. Due anni e tre mesi perché tornassi a rivolgervi la parola. Sono sprofondato quando è accaduto. Perché lo hai fatto ? Se vuoi ti mostro il ritaglio di giornale. Perché non m’hai svegliato? Perché non ne abbiamo parlato?
Non mi amavi? Se non mi amavi avevi il dovere di dirmelo. E perché hai portato Francesco con te? Ti avevo consacrato i miei giorni. Forse esagero, lo so. Ma lo sai che sono fatto così, ho sbagliato, t’ho chiesto scusa ma tu hai sottratto ogni impulso alla mia anima.
Francesco, non so perché la mamma si sia comportata così. Lei t’ha sempre voluto un gran bene. Ne vuoi al tuo papà? Rispondetemi. Vi prego ,rispondetemi.
Rispondetemi!
Le mie urla vagano tra le stanze gelide , sono orfane. Non vengono più dalla mente e neppure il cuore le rivendica. Sono le urla di un pazzo. Sono impazzito , lo so.  Lo sento.
Mi amate? . Non ti amano.
Elisa mi hai mai amato? E tu Francesco?. Non ti hanno mai amato, mai , non chiedere oltre.
Zitto. Fai rispondere loro. Mi amate?
Il vostro silenzio mi sta consumando. Mi consuma da oltre due anni. Voi eravate per me l’amore. E la ragione unica in cui scovavo la vita. E ora questo silenzio mi logora ogni giorno e ogni giorno di più.
Perché non mi avete portato con voi? Io qua non posso resistere. Rispondetemi.

La prosa del giornalista è terribilmente asciutta. Forse troppo. L’articolo che il professore conserva lascia poco spazio alle emozioni. E’ cruda cronaca nera.
Recita: […] sono stati i passanti a riconoscere i due corpi già cadaveri. Quello della giovane donna e del bambino. Morti entrambi sul colpo, sono precipitati dal balcone della casa in cui si erano da poco trasferiti. La prima ipotesi è quella del suicidio.

Il Professore aveva imparato una cosa. La morte è un fenomeno strano. Trascina con sé altre vite , dando inizio a tante nuove morti . Per ogni vita che finisce altre due o tre iniziano a consumarsi , sono le vite degli affetti più cari a chi se ne è andato. Ecco ,la morte  di questi inizia allora.  L’animo si consuma, come un tizzone che si fa sempre più piccolo. Solo i più forti riescono a sanguinare meno, a conservarsi e non consumarsi. Gli uomini d’amore , in genere, non riescono a non consumarsi.


(Avevo in corpo questa storia da tempo. Temevo di darle vita, non volevo che le mie parole potessero invadere storie vere, oltraggiare la memoria e la sensibilità di qualcuno.
Se così è stato il mio cure vi chiede perdono.)

lunedì 16 aprile 2012

Nel nome del figlio.

Figlio, spero un giorno mio. Figlio.
Non ho carezzato le tue braccia e mai il tuo capo e mai le tue mani. Ho visto le tue ore col bieco sguardo delle mie che mi hanno serbato solo rancori.
Oggi tremo. Tremano le membra e ad esse chiedo clemenza. Ma ancor’più invoco clemenza al cuore e alla mente. Essi non mi danno pace.
Non ho vissuto infanzia. Fui, a quindici anni ,scaraventato tra gli attrezzi di una fabbrica.
Portavo la paga a mia madre e ad essa rendevo ogni sforzo del giorno.
Tornavo , di sera ,al mio letto e cercavo ristoro.
Ma non lo trovavo , scendevo per strada e lì ho avuto la mia famiglia.
Troppo giovane m’hanno fatto padre. Da un’ora all’altra. Come la bambina diventa donna.
“Sei padre!” m’hanno detto. Per me è risuonato come imperativo straziante e tu hai dovuto  cercare altrove ciò che la mia inerzia ti ha negato.  
Ora sono seduto alla mia poltrona e ripenso a questa vita e alle altre. Alle altre non vissute. E cerco ragione della loro inesistenza. Frugo nelle mie tasche ma non trovo che alibi. 
Mi hanno fatto padre quando non volevo e tu figlio. Ma a te non era data scelta.
Non ho donato che frustrazione. E a voi e alla madre ho negato anche l’ultima speranza. Nella vecchiaia non le ho concesso serenità ,le ho sottratto il braccio ed è rimasta sola. Ora non posso fare altro che piegarmi sulle ginocchia, chiudere i palmi e piangere.
Le urla di un tempo hanno oggi un’eco grottesca. Non sortiscono effetto se non quello  di torturare  le speranze di questo bambino fatto padre.
Invoco, di notte e al buio , il tuo nome. Ma nessuno risponde.

Svegliami, figlio mio. Svegliami alla fine di quest’incubo. Non l’ho voluto.
Svegliami prima che l’orgoglio te lo impedisca. Prima che si annebbi l’ultima possibilità.
Svegliami prima che arrivi un anno nuovo , perché sarà un tempo nuovo e i tuoi ricordi potrebbero esse affievoliti.
Svegliami , perche non ho la forza di svegliarmi.  

Non ti chiedo perdono.

sabato 14 aprile 2012

L’aforista e Woody Allen



Aforista, apprendista, immigrato.
Non conosco altre vite che  quelle vissute lontane da qui.
Camminate notturne ascoltando le strade che raccontano storie. Mentre l’asfalto si bagna e la mente s’impregna .
Non trovi che i palmi delle tue mani nelle tasche vuote e sogni case dove dimori il tepore.
Sono aforista. La specie più abbietta di un’arte indiscussa.
Apprendista dei giorni. Apprendista di sogni. Figlio apprendista, amante apprendista, scrittore apprendista.
Immigrato nella mia città. Cerco campagne dove lasciar lavorare la mente come un negro che suda sangue.
Sono un mendicante, falso giullare, convinto accattone, rubo le storie.
Spio la gente nei bus, trovo nei loro discorsi quello che manca alle mie ore.
Vorrei perdermi in un film di Allen , vorrei dirgli “Woody ,mi presta le sue lenti?”
Perdermi per non varcare la soglia della casa non mia. Perdermi tra strade di provincia come fosse Parigi a mezzanotte e poi rincontrare Allen e dirgli “Qui ci sono le sue lenti, mi porta con sè nel suo prossimo film?”.  Lui mi risponderebbe “Certo che si” e m’accennerebbe un sorriso. Uno dei sorrisi di Woody. E io gli direi  “Sa signor Allen , lei è un tipo simpatico, vorrei essere come lei”.
Ma resto aforista,apprendista, immigrato.

mercoledì 4 aprile 2012

L'amore d'un vecchio che muore.

Dell’amore non s’esaurisce il tormento,
all’amore ancora dono il mio pianto.

Oggi che bianchi ho i capelli cerco perdono per le mie colpe.
Oggi che alla mente più non chiedo ragione m’affido , col vigore d’un vecchio morente , al mio cuore.
Sento, Adele, solo il profumo delle lenzuola da poco lavate, nelle narici penetra l’odore del campo che circonda la casa , trovo nei ninnoli impolverati della scrivania la ragione di questo giorno. Niente più è concesso a un vecchio che muore.
Vedo dalla mia finestra le giornate degli altri e cerco in essi ristoro. Non conosco altro che queste mura da quando la carne ha ceduto. Impreco , più non credo.
Non conosce più vita un vecchio che muore.
Questa mattina è venuta una donna, spacciandosi per nipote mia , l’ho mandata a casa sbraitandole dietro, non l’ho vista che nelle Pasque e  i Natali . Non merita il mio tempo, il mio tempo si fa breve e Iddio solo sa quante altre ore avrò per pisciarmi addosso e sputare saliva.
Trovo pace nel ricordo.
L’altra notte t’ho sognata, eravamo in Versilia e tu mi baciavi. Ho sognato le tue carezze e le tue mani morbide sui miei palmi ruvidi e per la troppa emozione ho fatto pipì a letto. E’venuta quella badante polacca che m’hanno messo vicino. L’ho schiaffeggiata fino a che non ha pianto. Così mi sono riaddormentato nel piscio.
Vorrei tanto fumare ma non me lo concedono. Poveri illusi , cosa può fare un po’ di tabacco a un vecchio morente.
Ti ricordi come c’amavamo? Eri bellissima. Eri bellissima anche da morta.
Il bianco a tratti violaceo della tua carne cadavere creava un connubio indicibile con l’acciaio del tavolo deve eri adagiata. Ti toccai il braccio e la morte mi pareva lontana.
Tu sei morta nel fiore degli anni , io mi sono trascinato mendicando all’Eterno qualche attimo di troppo.
Amami , solo tu puoi farlo perché conoscesti l’uomo che ero prima che iniziassi a morire. Torna nei miei sogni e raccontamelo,anche io ne ho perso il ricordo. Amami , solo tu puoi farlo , fui l’ultimo visto dai tuoi occhi, baciato dalle tue labbra, sfiorato dalla tua carne. Prego il Signore di trovare con te dimora. Può uno storpio e vecchio bevitore , per giunta poeta , trovare pace dopo i suoi giorni?
E’ venuto un medico, tenta di vistarmi con quegli aggeggi infernali ma non glielo consento. Non aspetto che te, Adele.
Sento il sudore sulla fronte e le mani farsi gelide, sento i muscoli intorpidirsi, le braccia dolenti e un dolore assordante e cieco , immaginavo più dolce la morte. Non hanno rispetto. Urlano perché muoio, li maledico , non gli manco che adesso , aspetto di diventare altro. E mi tormento.
Mi ami ancora, Adele?



domenica 1 aprile 2012

Ernesto.

A chi , con affetto, ha sollecitato il mio ritorno alla scrittura.


Ernesto stava seduto al tavolino. Sfumacchiava da mattina a sera. Il fumo gli entrava nei capelli e nei pensieri che sapevano di tabacco.
Scriveva le sue storie da mattina a sera , davanti a un caffè .
Amelia era  una cameriera , bellissima. Portava i capelli raccolti in un tuppo, riuniti da tre forcine. Una camicetta di seta bianca. Un filo di perle .La carne rosa e le guance di ciliegia.
Al tavolino del caffè passava il mondo. Ernesto trascorreva le sue giornate a guardare e ascoltare.
Quando Amelia posava il grembiule , Ernesto la scrutava da capo a piedi e ad Amelia piaceva. Alle sette di sera , quando l’ultimo sole avvolgeva Firenze , Ernesto posava la penna e beveva il  caffè. Prendeva la sua cameriera sotto braccio e passeggiavano fino a che le gambe glielo concedevano , fino a che le ginocchia di Amelia non chiedevano riposo. Lei lo portava a sè come la madre stringe il figlio e lui ne sentiva il profumo mentre le  vibrazioni del suo corpo scrivevano poesie.
Quando rincasava  , Ernesto trovava la sua macchina per scrivere e il suo giradischi.
Preparava la cena.
A mezza notte l’ultimo caffè. Poi Ernesto suonava la sua macchina per scrivere. Mentre il giradischi cantava.
E di fronte Firenze e San Frediano e nient’altro. Perché niente esiste al di fuori di   Firenze , il mondo è nella mente di Ernesto.
Alle quattro apriva le finestre perché uscisse il fumo del sigaro e andava a letto. Con i vestiti del giorno, con la puzza del suo sudore, con la polvere tra i capelli e la barba incolta che graffiava il cuscino ingiallito.
Alla mattina presto Amelia passava fori casa sua e  da tre anni gli lasciava una mezza bottiglia di latte, una brioche e una manciata di sigari. Ernesto la scrutava dalla sua finestra e appena la cameriera svoltava l’angolo lui si precipitava in strada.
Questa era la vita di Ernesto , dopo un matrimonio finito male,dopo una vita di soddisfazioni aveva scelto tre cose: il caffè , la macchina da scrivere e i sigari. E una donna soltanto : Amelia.
D’estate , quando Firenze lo concedeva, avevano scopato nelle traverse di San Frediano, nella puzza di piscio , tra le mura umidicce , in mezzo ai gatti, una volta su un muretto, un’altra tra le scatole di un negozio di bottoni, un’altra ancora sulla scala della chiesetta di San Bartolomeo.
Sette anni prima Ernesto aveva capito che quella tra le sue mani non era la vita che voleva. L’aveva capito rincasando . Aveva trovato il piatto in tavola, i figli seduti ad aspettarlo , la moglie sotto l’arco della porta. Aveva posato il soprabito, aveva allentato   la cravatta  per mangiare la minestra. E i ragazzi gli parlavano della scuola  e la moglie delle amiche e la suocera del cucito. Poi s’era alzato per andare al bagno e , nel suo studio, sulla scrivania c’era un enorme lampada liberty.
Non c’era più spazio per la sua macchina da scrivere. Ora giaceva incartata , in uno scatolo.
Aveva ripreso il soprabito ed era sceso .Al tavolino d’un bar aveva ritrovato la vita.

Non c’è altra vita che quella che ti costruisci, non c’è altro amore al di fuori  di  quello che cerchi .

Seduto al tavolino d’un bar siede Ernesto, con il suo caffè , il suo sigaro e la sua penna. E poi c’è Amelia con la quale fa all’amore e che ogni mattina gli porta il latte.