lunedì 26 maggio 2014

Un mandato straordinario al PD e all'Italia.

E ora?
Il Partito Democratico è volato oltre la vetta del 40%, più che un risultato elettorale questo si configura come un vero e proprio mandato popolare. Per mutuare una terminologia giuridica, un mandato di ottimizzazione all'Italia quale stato fondatore dell'Europa unita, che impone al centrosinistra e al Governo di agire al massimo delle proprie possibilità.
Per vero, le prospettive d'analisi sono due: quella nostrana e quella europea.

La prima vede il PD centrare un risultato storico dalla nascita della Repubblica ad oggi: mai un partito riformista e progressista aveva sfiorato simili percentuali, godendo tra l'altro di un bacino elettorale così ampio. Oltretutto l'esito delle Europee sanziona i Democratici in via definitiva quale forza supermaggioritaria e di Governo, traguardo impensabile, checché se ne dica, dopo decenni di conventio ad excludendum. Queste considerazioni sono amplificate se si considera che la percentuale de quo è espressione della forza elettorale di un solo partito e non di una coalizione. 
Ciò avrebbe significato, in costanza di elezioni politiche nazionali, la certa formazione (uso un'espressione odiosa) di un governo monocolore PD. 
Ripeto: mai nella storia della Repubblica.
Ciò incarica il centrosinistra di un mandato trasversale che attinge a piene mani da tutte le categorie sociali, geograficamente ovunque collocate.

Queste considerazioni si fanno quasi trascurabili se si legge la portata del risultato italiano in Europa.
Escluse Malta e Lettonia (dove Laburisti e Popolari raggiungono rispettivamente il 53% e il 46%) che, con il dovuto rispetto, hanno un peso specifico neppure paragonabile a quello Italiano, il PD è il primo partito dell'Unione percentualmente e, in termini di elettori nominali, il primo in assoluto.
Il secondo dato da considerare è l'indiscutibile affermazione delle forze centrifughe, cosiddette euroscettiche. Affermazione consumatasi non solo nel sui generis Regno Unito ma soprattutto nella eurofondatrice Francia. Che significa tutto ciò?
Significa che l'Italia ha una responsabilità enorme.
Paradossalmente il Paese che aveva destato le maggiori preoccupazioni per la stabilità dell'Unione ne diventa il baricentro politico, insieme (paradosso nel paradosso) alla Germania di Angela Merkel, dove l'europeista Cdu si piazza molto bene.
 Il PD di Matteo Renzi ha dato un contributo cruciale in termini di seggi alla, quasi certa, formazione di una grande coalizione e ciò gli conferisce un potere contrattuale spendibile su una molteplicità di fronti.
Spetta ora all'Italia, profittando del semestre di presidenza, trainare l'Unione verso un porto sicuro da cui ripartire insieme alle grandi forze europeiste. Diversamente i facili vitelli d'oro portati in trionfo dai populismi rischiano di annebbiarci la vista e impedirci il cammino.

Un'ultima parola su Matteo Renzi segretario di partito.
Da renziscettico, scusate il neologismo, non posso non riconoscerne il merito già storico. È stato capace di ristrutturare e rendere finalmente fruibile il centrosinistra italiano, attendendo alle ambizioni per cui esso nacque nel non lontano 2007 (chi asserisce il contrario sa di mentire).
Per questo e per mille altri motivi di cui non parlerò, chapeau!


domenica 25 maggio 2014

Riflessioni sull'Europa.

“La piccolezza dell’Europa è figlia della sua grandezza storica”
E’ questo il conciso esordio de “La nostra Europa” scritto dal formidabile Edgar Morin che, in maniera asciutta e agilissima, cavalca le vicende e tratteggia le sorti del vecchio continente.
Fonte di molte riflessioni, ha ispirato non pochi dei pensieri che seguono.

Gli strepiti di questa campagna elettorale sono stati assordanti, gli insulti altisonanti e i ragionamenti sull’Unione non si sono certo distinti per profondità d’analisi.
La verità è che, fatta salva la pace di qualcuno, la confidenza con le cose d’Europa è davvero minima e con l’avvento degli anni 10 la produzione di un pensiero strutturato si è fatta carente, lasciando a pochi sedicenti esperti la possibilità di veicolare contributi con i piedi d’argilla.

La riflessione che la giornata di silenzio elettorale agevola deve permetterci di rispondere a due domande:
da dove veniamo e dove vogliamo andare. Sarebbe preferibile chiedersi dove possiamo andare ma è meglio soprassedere.

Veniamo da un Europa che è sempre più terra di provincia, confinata alla periferia della storia, stretta tra tre blocchi: gli USA, la potenza russa e le aree economico-politiche emergenti (per vero non più così emergenti come, per confortarsi, si usa dire).
Il peso specifico del vecchio continente sul piano demografico, energetico e militare si assottiglia impietosamente; l’Unione gode di un mercato unico al suo interno ma non di un unico mercato al suo esterno; le molteplici forme di concertazione e politica e giuridica ne frammentano la voce, rendendo impossibile all’interlocutore, per usare una metafora, percepire parole di vera sintesi.
Il punto è che in queste condizioni, o si completa l’Europa o si muore.
La tenaglia che stringe l’Unione è asfissiante e il maggiore rischio per la medesima è quello di una condanna all’irrilevanza. Per fare un esempio tangibile e assai di moda: tra quindici anni non uno dei paesi europei che siedono nel G8 oggi potrebbe sedervi ancora, neppure la Germania. Se invece ammettessimo, cum grano salis, che i ventotto si facessero Nazione o, come suggerisce qualcuno, meta-nazione il potere contrattuale diverrebbe enorme.
Eppure, ancora in questa campagna elettorale gli slogan più in voga di ogni parte politica invocavano una difesa a ranghi serrati della primazia nazionale declinata nella molteplicità dei suoi ambiti di esplicazione.
La domanda è spontanea: andando per questa via davvero pensiamo di arrivare lontano?
Solo l’uscita dagli sterili nazionalismi può consentire all’Unione di giocare un ruolo attivo e consapevole nei processi della nuova globalizzazione.
Diversamente, riuscite ad immaginare un tavolo negoziale a cui siedono il Ministro dello Sviluppo economico italiano e il suo omologo cinese, impegnati a concludere trattative per un sistema di import-export vantaggioso sia per il Bel Paese che per la grande potenza economica? Non è forse questa la meschina e ridicola sorte che ci attenderebbe qualora decidessimo di tornare all’amata lira (per riferirsi ad una delle ambizioni di questa campagna), accettando un cambio nominale per forza di cose a noi avverso?

Quale futuro ci attende? O meglio, a quale futuro dobbiamo lavorare?
Su questo punto la fantasiosa politica nostrana, e non solo, ha dato il meglio di sè. Sembra, infatti, che i più abbiano dimenticato le radici di un progetto ambizioso che ha solo pochi decenni di vita e che sfugge alle consolidate categorizzazioni.
L’Europa infatti, divisa sin dalla fine del secondo conflitto mondiale tra forze centrifughe e centripete, ha scelto la terza via, quella funzionalista.
Alla fine della guerra Federalisti e Confederalisti si contendevano lo scalpo della sovranità nazionale: i primi intenzionati a giustiziarla definitivamente per giungere allo Stato europeo, i secondi interessati alla formazione di un’Europa statuale senza però immolare l’autodeterminazione dei futuribili membri.
Nessuno dei due movimenti riuscì ad affermarsi e in seno al primo Congresso d’Europa, tenutosi all’Aia per iniziativa di Churchill, la voce dei funzionalisti, tra cui Shuman e Monnet, iniziò a levarsi.
Nasceva la via dell’integrazione settoriale, un dispositivo giuridico e politico brillante. Si trattava di procedere a piccoli passi, ancorando la costruzione di un’unione tra gli Stati alla permeabilità dei settori economici prevalenti.
Insomma l’Europa non si sarebbe unita per effetto di un’azione rivoluzionaria ed istantanea generata da una grande convenzione costituzionale bensì per effetto di un graduale processo volto a porre le basi di una nuova struttura istituzionale.
Le altisonanti immagini di un’ Unione che si fa “Stati uniti d’Europa”, per quanto futuribile, è oggi lo specchietto dietro cui celare la noluntas di procedere a sostanziali e sostanziose cessioni di sovranità.
Quale sarà la forma, se preferite il nomen juris, che il vecchio continente dovrà prendere sarà la terza via a stabilirlo.
Oggi è necessario proseguire nel solco tracciato nel 1984 da Altiero Spinelli nel suo Progetto (leggetevelo, è di un avvenirismo imbarazzante) il cui fine è quello di gettare le basi per una organizzazione politica unitaria mediante la definizione di una serie di linee guida, in parte già interiorizzate dalla trattatistica comunitaria.

L’Europa, dunque, deve farsi Una, superare la frammentazione generata da risalenti e anacronistiche rivendicazioni nazionali, accettare la sfida dell’espansione demografica aprendosi all’integrazione e, senza cedere alle sirene dei populismi, comprendere che in costanza di paralisi e disgregazioni, come quelle generate dalla crisi,“là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”.