lunedì 30 gennaio 2012

Professione di fede.



Scendi nelle piazze quando ti dicono che non serve a nulla e protesta più forte quando chi ti sta davanti non t’ascolta. Credi nella politica perché ci salverà , perché gli algoritmi hanno vita breve, le idee sono immortali. Disprezza dal profondo dell’animo tuo i maestri che s’ergono a monumento della conoscenza tua e di ogni loro allievo.
Maledici gli inetti perché , pur potendo, non hanno osato e con la loro inerzia hanno trascinato sul fondo chi muoveva i primi passi.
Non credere a chi ti dice che hai ragione , chiedigli piuttosto perchè ritiene che tu abbia ragione.
Fuggi da chi t’asseconda , cerca chi ti combatte , questi avrà mille ragioni in più di chi non ripete altre parole che le tue.
Non credere mai a chi si dice anticonformista , un vero anticonformista rifugge  dai luoghi comuni dettati dal conformismo( e tra questi il primo è proprio l’anticonformismo).
Sappi che non esistono affinità al di fuori di quelle che tu non vedi e che non puoi vedere.
Ama. Vivi amando. Amando vivrai. Senza amore non esiste vita.
Lasciati affascinare dai cantastorie ma non fidarti mai di uno scrittore.





domenica 29 gennaio 2012

Ti piace il mare?

-Non sapevo che odiassi il mare-
-Ho sempre odiato il mare-

Luca non lo sa, non può saperlo , è giusto che non lo sappia.
A dieci anni vidi per l’ultima volta il mare. Con mio padre.
Scendemmo da soli in spiaggia , c’era vento e il sole era nascosto dalle nuvole.
Facemmo il bagno lo stesso.
Papà s’arrampicò sulla scaletta che portava alla strada.
Tre colpi sordi.

-          Se vuoi andiamo via-
-          Non voglio, abbracciami-

Luca non sa che fino a qualche tempo fa non ricevevo abbracci.

***

Laura arriverà tra poco. I miei sono fuori stasera e ho ottenuto da mia sorella che mi lasciasse libera la casa. Quella stronza si è fatta pagare, in compenso m’ha aiutato a preparare la cena.
Papà m’ha prestato un portachiavi. Lo aveva con sè la sera del primo bacio a mia madre.
Ero indeciso se apparecchiare in soggiorno o in cucina. Ho optato per la seconda.
Prendo il vino bianco dal frigo. La bottiglia è gelata.
Sono le nove e inizio a tremare.
Cazzo!Controllati. Mi tremano i polpacci. Devo sedermi. E , mentre lo faccio, mi prende una fitta allo stomaco. Mi rialzo , mi guardo allo specchio, aggiusto il colletto della camicia…squilla il citofono…è Laura. Apro.

Ho le mani terribilmente sudate e quando arrivo davanti alla porta di Luca mi fermo per circa un minuto a fissarla. Tremo.
Con il tallone spingo sul tacco. Incrocio le gambe , mi mordo le labbra fino a sentire il sapore dolciastro del sangue. Poi appare Luca.

E’fottutamente bella. Devo essere diventato rossissimo. Vorrei baciarla ma non lo faccio.
Non è il caso , meglio pazientare.

Baciami..penso..baciami. No. Non m’ha baciata . Forse è meglio che non l’abbia fatto

Quando ci sediamo Laura insiste per aiutarmi. Non glielo consento.
Ho preparato il risotto ai funghi. Laura lo adora.
Glielo servo e stappo il vino.
Provo da sempre un inesprimibile piacere nell’attimo in cui il vino, naturalmente bianco, riempie il calice che diventa dorato e  il vetro s’appanna . Allora inizio a sognare.
Lei alza il calice , lo porta alle labbra, beve.
Potrei restare per ore a fissare il segno del rossetto sul vetro. A volte penso che sono queste le inafferrabili sensazioni che m’hanno fatto innamorare.

Vidi Luca per la prima volta in libreria. Era solo. Seduto al tavolino del caffè ,leggeva Pavese.
Aveva davanti a sé un tiramisù e una tazza di the.
Che tipo. Pensai.
Non riuscii a visitare nessuno degli scaffali. Presi un libro a caso e mi sedetti al tavolino di fronte al suo.
 S’alzò per posare la tazza vuota e si fermò a pochi passi da me.
-Devi essere appassionata di ornitologia- disse. Non capii poi guardai il mio libro:“Vita di coppia tra uccelli del sud America”.
Avevo pescato il volume sbagliato.

Faccio per alzarmi e servire il secondo ma Laura mi prende la mano.
Sono pietrificato.
-Lascia che t’aiuti- mi dice. Stavolta glielo concedo.
Insieme prendiamo il secondo e insieme ci risediamo.
Parliamo a lungo, poi un bicchiere di vino e poi parliamo ancora. Mi perdo e ne sono felice e tutto ciò m’inebria e mi delizia e penso che se morissi ora non sentirei dolore e sarei felice comunque.
Quando la cena finisce io l’abbraccio e ci stringiamo. E nella mia stretta sento i suoi fianchi e il profumo della pelle e le ultime fragranze della bottiglia finita che si  mescolano sulle nostre labbra.

***

Quella sera io e Laura facemmo all’amore  per la prima volta.
Di quelle ore ricordo il senso di sereno e d’eterno.
Ci giurammo che non sarebbe finita.
Quando guardo le foto di Laura non trattengo le lacrime e  faccio sempre attenzione a che Francesco non mi veda. Ha gli occhi attenti di sua madre.
Francesco era nato da due mesi e Laura aveva già perso tutti i capelli. Era ancora più bella , gli occhi erano sempre gonfi e rossi ,temeva di lasciarci soli.
Ciò accadde la mattina di un martedì. Ero all’università, avevamo entrambi deciso di continuare gli studi, decidemmo di farlo per noi e per nostro figlio. Quando mi chiamarono corsi in ospedale.
Laura aveva lo sguardo appannato. Gli occhi erano aperti per metà, faticava a respirare.
Mi accostai al letto e la fissai. Lei mi riconobbe e mi prese la mano.
Aveva ormai poche forze.
Avevo conosciuto Laura solo un anno e mezzo prima e già la stavo perdendo. Le stavo stringendo la mano per l’ultima volta , lei lo comprese subito, io l’avrei appreso solo dopo l’ultimo bacio.

-          Ricordo quel che mi dicesti la prima volta che ci parlammo … “sono una persona strana, sappilo”… fu per quello che mi innamorai di te, perché eri strano… anche la mia vita è stata  strana , tutto è stato tremendamente strano in questi vent’anni…e ora me ne vado, hai ventun’anni e hai un figlio … e ora baciami , fallo … e bacia Francesco , abbraccialo forte perché non avrà madre -

La baciai. E tacqui.


***

-          Francesco , vieni qui!Siediti , hai tutte le scarpe sporche di sabbia-
Lo prendo sulle mie gambe.
-          Qualche anno fa ero seduto qui con la mamma-
Sembra indifferente alle mie parole, guarda dritto davanti a sé, con gli occhi spalancati e sorride.
-          Ti piace il mare?-
-          Si papà, tanto-

venerdì 20 gennaio 2012

Rinascimento.

Nell'attesa impietosa
sono sprofondate
le urla
e mentre mi culla
il ristoro ingannevole
dell'ultim'ora :
scopro parole.


Non sconterò la mia pena.
Già vivo.

lunedì 16 gennaio 2012

Amici di Guerra.


Le gelse cadevano come grandine.
Io e Alfio eravamo alle estremità opposte del lenzuolo.
Mio zio s'era arrampicato come una scimmia fino a metà fusto.
I rami ci sovrastavano.
Ricordo ancora il rumore del gelso battuto. Tre colpi , secchi. E poi il tonfo dei frutti.
E poi di nuovo il bastone contro i rami e poi di nuovo una pioggia di gelse.

Nelle settimane di Settembre fino al 1940 questa fu la nostra vita.

Quel giorno io e Alfio eravamo seduti sul divano di casa mia. Sul tavolo c’era un vassoio di paste alle mandorle. Mi sembra di sentirne ancora il profumo.
 A terra , ai piedi del divano, una bottiglia di vino. Bianco.
Il vino era ghiacciato e fuori era Giugno.
Avevamo dormito solo tre ore la notte precedente. Ma , nonostante ciò, non avevamo per nulla sonno. Alle dieci di sera Alfio s’era presentato davanti alla nostra porta , prendemmo un asciugamano e salimmo sul tetto, ci stendemmo a guardare il cielo. Era buio pesto e intorno a noi il paese dove avevamo trascorso ogni ora della nostra vita era avvolto dal silenzio. Pochi rumori attutiti provenivano dal bar di Franco , sentimmo le bottiglie vuote rotolare  sull’asfalto e verso la mezza il rumore della saracinesca. Poi tutto tacque.
Trascorremmo sei ore su quel tetto. Nessuno di noi due parlò molto. Forse non parlammo affatto.
Nelle settimane e negli anni che sarebbero venuti ho pensato a lungo a quella notte , all’umidità che scese sulle nostre gambe, alle case basse di San Germano, al silenzio del paese e al nostro e ho compreso  , forse tardi, quanto ci fummo indispensabili.
Da allora, dopo gli eventi che si sarebbero succeduti, divenni tremendamente verboso. Volevo che il silenzio di quelle sei ore trascorse con Alfio a guardare il cielo rimanesse l’ultimo della mia vita.
Il vino era ormai finito e nel cesto rimaneva solo qualche pasta quando la bottiglia iniziò a tremare , prima impercettibilmente poi sempre più forte ,fino a quando rovinò sul pavimento in mille grossi pezzi.
Ci alzammo di scatto.
Alfio fu il primo a raggiungere il balcone. Fuori ,il cielo era invaso da uno sciame di apparecchi.
Vidi cadere sulle case più lontane , con inquietante armonia , decine di bombe.
A grappoli venivano sganciate sulle nostre abitazioni e sui nostri campi poi una nube di polvere iniziò ad avvolgere voracemente ogni cosa, raggiunse la Chiesa e la strada antistante, la piazza , l’edicola all’angolo. L’ultima cosa che vedemmo fu il nostro pezzo di cielo lasciato libero dagli apparecchi. Poi fu il buio.

A mezzo giorno uscimmo dalla camera da letto dove c’eravamo rifugiati io , Alfio, mia madre e mia sorella Maria. Tutto era coperto da una spessa coltre biancastra, la polvere ci penetrò nelle narici rendendoci impossibile il respiro. Mamma si diresse verso la credenza , cacciò quattro fazzoletti di lino con cui ci fasciammo i volti.
Quando ci riaffacciammo al balcone San Germano non esisteva più.
Solo quattro palazzi erano rimasti in piedi. Nella piazza , avvolto da una nube di polvere che sembrava foschia , giaceva il campanile del palazzo del Podestà, poco distante il bar di Franco era sventrato e così la canonica della Chiesa e il negozio di Mimì e il monumento ai caduti della guerra finita nel ’18.
Ai piedi della fontana pubblica, rimasta muta d’acqua, c’era la testa del Duce, spaccata in due parti perfettamente identiche. La colonna su cui l’avevano piazzata era rimasta inspiegabilmente integra. Questa fu una delle poche visioni confortanti di quei giorni.

Maria accese la radio, dapprima fu  il silenzio. Poi , come un insperato miracolo, una voce roboante.
Solo allora capimmo.
***

Vidi mia madre per l’ultima volta nell’ottobre del ’43.
C’eravamo trasferiti nel centr’Italia. Io avevo vent’anni. Mia sorella Maria diciotto.
Andai via durante la notte.
Mamma era seduta sulla poltrona nell’ingresso, in quei due anni era terribilmente invecchiata. Non aveva più dormito in un letto. Diceva che voleva sempre essere pronta a scappare. Non temeva più gli attacchi aerei ma il rumore delle camionette. S’era convinta che un giorno o l’altro quei fascisti di merda m’avrebbero preso. E allora , ogni sera, per due anni, la vidi sgranare il rosario e baciare la Madonna. Un giorno m’aveva dato una figura della Vergine , la portai con me sempre, insieme alla foto di mio padre, a quella di Giada e quella di Alfio che non vedevo più da dalla fine del ’40.
Io e Giada ci arruolammo insieme.
Il comandante della mia formazione ci assegnò Genova. Viaggiammo per cinque giorni su un carro merci. Nascosti dietro le ceste del grano. E facemmo all’amore ogni sera. Quando veniva il buio. Ed eravamo stanchi per fare ogni cosa meno che per fare all’amore.
Se quel carro fosse stato fermato per un controllo saremmo morti entrambi, ma non ci importava, ci amavamo e questo ci bastava.
Quando arrivammo a Genova fummo divisi.
Io fui  mandato non lontano dal Garda mentre Giada restò in Liguria come staffetta.

Venni accolto dai compagni del locale Cnl. Fui ribattezzato Saverio.
Le notti che si susseguirono furono terribili e piene d’angoscia. Non dormii mai nello stesso posto, temevamo imboscate notturne e ce ne furono molte.
A lungo dovetti rimanere nascosto nel sottotetto di un granaio perché una soffiata di un compagno torinese ci aveva messo all’erta.  Trascorsi circa venti giorni con qualche pezzo di pane e le fettine di maiale che la gente del contadi mi portava.
Pensai tanto. Pensai a Giada che avevo visto passare su una bicicletta qualche tempo prima, pensai a mia madre e pensai ad Alfio.
Non avevo sue notizie da troppo tempo. Mi svegliavo di notte e lo immaginavo morto in un torrente.
Era andato via da San Germano senza salutarmi, piansi per ore intere. M’aveva lasciato un biglietto.

Comunque andrà, la nostra amicizia sarà per sempre.
Alfio.(Come un fratello)

In ogni paese ove sostai chiesi di lui.
Una volta una signora di Padova che mi offrì alloggio mi raccontò di un ragazzo del sud, di nome Alfio. Un ragazzo della provincia , mingherlino. Volli convincermi che fosse lui. Mi convinsi che lo era. Allora pregai ogni notte la Madonna di preservare Alfio e di farmi rincontrare Giada. Il primo desiderio rimase a lungo disatteso.
Venne l’inverno del ’44. Di quei tempi ci spostammo nelle Prealpi dove la lotta si faceva più serrata. Al contrario di quanti oggi si possa pensare , le notti furono per un po’ il momento migliore della giornata. Si stava insieme , si ballava, si beveva. E si beveva, se la memoria non m’inganna, solo vino rosso. Un compagno addetto alla spola tra le tane mi riforniva di libri. Dovevo accontentarmi di quel che passava il convento. Una volta mi portò un volumetto sulla vita di Sant’Agostino, m’appassionai tanto che non volli restituirglielo. Gli diedi in cambio quei pochi spicci che avevo in tasca perché me lo vendesse.
Poi , da un giorno all’altro, quegli intrattenimenti cessarono.
 Non vidi più né  vino rosso nè i canti di montagna né  i libri nè le storie raccontate ad alta voce nè i balli intorno ad un braciere improvvisato.

Ci fu comandato di appostarci a Casale Sant’Erminio, l’ordine arrivò dal colonnello Croce.
Si era diffusa la notizia che la boscaglia era infestata di fascisti.
In quei giorni si videro strani movimenti nella città, molti dei nostri compagni scomparvero nel nulla. Nel gruppo del quale ero a capo non eravamo più di venti e con mezzi insufficienti.
Trascorremmo cinque notti all’addiaccio. Avevamo ricevuto ordine di non muovere passo , tenemmo notte e giorno i fucili puntati verso gli alberi. Arrivammo a convincerci che si trattasse di un falso allarme. Non era così.
Al sesto giorno fu dato ordine di avanzare divisi. Il nostro compito era di ammazzare chiunque avesse (o sembrasse avere, ciò a tanti anni da quell’inverno ancora mi sconvolge) una di quelle divise che conoscevamo bene.
Io mi diressi a Est dove la boscaglia incontrava la montagna. Procedevo con il fucile spianato e ogni venti minuti sentivo provenire , spesso anche non lontano da me, un colpo di fucile . Segno che i fascisti c’erano. Chi crepava tra noi e loro lo avremmo scoperto solo più tardi.
Nel tardo pomeriggio compresi di essere seguito.
Se pensate che in quei momenti temessi la morte vi sbagliate di grosso. Temevo la sofferenza di una tortura atroce. Quelle bestie erano capaci di tutto pur di ottenere una confessione, scovare un nascondiglio o anche solo stuprarsi una delle nostre donne. A quel punto non avrei potuto far altro che morire o mentire. Ma mentire non è mai stato nel mio stile.
Sparai tre colpi a vuoto ma non ottenni reazione alcuna.
Era quasi buio quando m’appostai dietro un grosso albero , decisi che se non avessi preso il mio inseguitore avrei trascorso lì la notte.
Poi d’improvviso un’intuizione. Imbracciai il fucile. Puntai in alto la canna. Un colpo secco.
Il mio nemico era a terra. La gamba destra ferita. Agonizzava.
Mi diressi verso di lui come una belva. Lo agguantai per una spalla e lo costrinsi contro il tronco dell’albero. Spinsi il suo volto contro la corteccia, sentii il rumore del suo naso che si rompeva.

-          Chi sei? Chi è il tuo capo?
Non rispose. Ripetei la domanda.
      -     Ti ho chiesto chi sei! Rispondi pezzo di merda!
Gli affondai lo stivale destro nella schiena.
-          Stato Nazionale Repubblicano!
Era un repubblichino. Un fottuto repubblichino.
-          Sei un fascista di Salò e non hai avuto il coraggio di spararmi per l’intero pomeriggio. Siete    delle larve infami.
-          Non sono armato…ero appostato… ho perso la pistola…ho un binocolo-
-          Come ti chiami?- Urlai.
Non ottenni risposta. Lo colpì con il calcio del mio fucile. Lo pensavo morto. Non lo era.
Passò qualche secondo poi con un sibilo mi rispose.


-          Sono Alfio.-

Mollai la presa , arretrai di una decina di passi , mi si annebbiò lo sguardo, non sentii più il rumore degli spari che si erano fatti incessanti intorno a noi , non sentì il vento che agitava la boscaglia.
Lo vidi voltarsi. Riconobbi quegli occhi che mi erano stati a lungo compagni , iniziai a piangere e le lacrime si impastarono alla terra che mi copriva il viso.
Ai piedi di quell’albero c’era Alfio.
Per mesi avevo pregato la Vergine di proteggerlo, chiesto a Giada di fare un voto per lui.
Dopo quasi tre anni il mio amico era lì. Insanguinato. Con un binocolo al collo.
Ricordai la notte del Giugno del ’40. E le ore trascorse insieme e i silenzi e le botte che ci eravamo dati e gli abbracci.
Mi avvicinai. Piano.
Lo strinsi tra le mie braccia. Sentivo le sue lacrime bagnarmi il collo.
Poi mi respinse.
Lo guardai fisso negli occhi. Avevo capito quello che voleva da me.

-          Fai quello che devi fare- disse.

Sentì un brivido di terrore percorrermi le membra.

-          Fai quello che devi fare!- urlò.

Arretrai di nuovo. Per un minuto entrambi tacemmo guardandoci. Come quella notte , sul mio tetto nel paese di San Germano.

Mi posizionai di fronte a lui.
Alfio sorrise.
Io sparai.


giovedì 12 gennaio 2012

Peace of a Moment. di Giuseppe Di Giacomo.

di Giuseppe Di Giacomo


Respiro lento, intorpidimento cerebrale, distacco totale dalla realtà che mi circonda, questa è la pace dei sensi e riguarda solo te amico mio; non riguarda l’istinto o l’impulso dei sensi e quanto mai di più vero nel loro apice ci hanno illustrato i Romantici, questo è ciò che riguarda solo te, la pace , non durerà mai per sempre; questa non è una cosa per cui si lotta, è un momento di pace, è quel breve istante che ti ridà alla vita, giorno per giorno; non appartiene né ai ricchi né ai poveri, non appartiene all’uomo ma a ciò che di meno è uomo, la coscienza e lo spirito; una forza così fragile capace di sollevare l’effimero, l’inetto , il materiale e l’intellettuale, oltre e dove lo sguardo volge. Ma solo la pace ti fa aprire gli occhi, ciò che vedrai non è bene o male ma soltanto ciò che è vero.

P.S. Il tremolio è incessante , carta e penna mi hanno regalato un’altra pace , l’oscurità c’è sempre , bisogna guardarla e sorridere bene alla luce per seguire la pace, poi c’è sempre un’altra strada da conoscere, non so, ma di certo non è la mia.

P.P.S. Momento di stupidità esponenziale , non voglio rileggere.

Ispirato da Robert Plant
Our shadows taller than our soul” ( R.Plant)

mercoledì 11 gennaio 2012

Indignazione.

Ebbene,sappiate che vi detesto.
Vi odio con tutto me stesso.
Continuerò a farlo e vi insulterò con i peggiori improperi fino a che avrò fiato in corpo.
Non sopporto la sfacciataggine della vostro consapevole e ingiustificato disincanto.
Possiate affogare nella vostra indifferenza, rovinare nella vostra noncuranza , ridotti, un giorno, allo stesso silenzio a cui avete condotto la mia generazione.
Nei secoli dei secoli.

Amen!


Un giorno dovrò raccontare ai miei nipoti che vissi al tempo dell'indifferenza. Che la mia fu la gioventù degli inetti e che , fatta salva la pace di qualcuno, l'ultimo calcio alla Partecipazione lo demmo noi. E se loro mi chiederanno io dove ero dovrò chinare il capo e dirgli che ero lì e guardavo ma un po’ m'indignavo perché volevo che così non fosse. 
Allora vedrò la delusione nei loro occhi e non potrò che chinare di nuovo il capo e ammettere che ero complice perché chi è silente nel tempo dell'inettitudine è anche egli un inetto , anzi è il primo di essi.

-Coscienza ad orologeria e indignazione programmata. Questo fu l’ottanta per cento della mia gente, nipoti miei- Dovrò ripetergli.
E basterà che io gli dica che noi però eravamo quel venti percento rimanente? Che eravamo lì a dire , a convincere, a protestare? E se mi chiederanno perché non approfittammo del loro disincanto? ; tanto a loro andava bene tutto .
Io cosà risponderò?

Sappiate che pesa su noialtri , che ci pensiamo consapevoli delle cose del nostro tempo, il dovere più gravoso :quello di rispondere alle domande di chi verrà. 
Non basterà ripetere che fummo figli di un ventennio senza governo , che vivemmo gli anni della crisi e dell’Europa allo sbando; prima di noi vennero gli italiani della guerra e prima ancora quelli di una terra senza Nazione.

Una Storia.

-Avete dimenticato la borsa dei giochi!-
Sento il rumore dei loro passi che scendono le scale, o forse salgono. No stanno scendendo. Li prenderanno la prossima volta.

-          Giulia!- Chiamo
-          Giulia! Dove sei ?-
Poi Giulia arriva.

E’ sotto l’arco della porta. I capelli bianchi , raccolti in uno chignon, come sempre da qualche anno.
E’ancora tanto bella.

-          I ragazzi hanno dimenticato i giochi. Chiama Adele e dille di venirli a prendere-
-          Li prenderanno domani, a pranzo-
-          Hmm , sia –

      - Ah Giulia!-
      - Che c’è?-

Vorrei dirle grazie, non so perché. In fondo lo so. Perché è rimasta lì, non se ne è mai andata neppure nelle notti più brutte , quando non c’era pane e si viveva alla giornata , quando i nostri corpi hanno iniziato a cedere, quando alla sera , dopo cena , da cinque anni a questa parte deve condurmi sotto braccio , a passeggio , perché i muscoli non si atrofizzino e io possa camminare , il giorno dopo , un’ora di più.
Lo sai che ancora ti amo , vorrei dirle.
Ci provo.

-          Lo sai che per cena mi andrebbe il pollo?
-          E’ quello che sto cucinando –
-          Hmm, sia-

Non ce l’ho fatta. Sono troppo vecchio per queste cose.

Esce. Chiude la porta. Un’ultima vibrazione del vetro e poi il silenzio.
Sono solo. Sulla mia poltrona. Il camoscio si è sbiadito, la seduta non esiste più. Giulia ci ha piazzato un cuscino di lana , a fiori grandi.
Ormai le mie mani sono dello stesso colore dei braccioli, me ne rendo conto ogni sera, quando accendo la lampada. Le prime volte mi dicevo che era per la troppa luce, invece no.
Erano i troppi anni.
Con l’indice e il pollice mi rigiro la fede. Ho tanto tempo.
Mi sono convinto che solo da vecchi si apprezza il tempo.
Quando hai pomeriggi interi per osservare la gente, settimane per leggere un libro. Quando puoi permetterti di non capire al primo colpo , perché avrai tempo per cercare qualcuno che ti rispieghi il concetto  e magari ripensarci e ripensarci  e se ti sei annoiato rassegnarti. E se vuoi , chiedere ancora una volta perché hai ore e ore a disposizione.
Una volta non era così.
Vivevo pensando alle cose da fare e quando arrivava la sera m’ affrettavo a terminarle. Oggi lascio sempre una o due cose  per il giorno dopo per due motivi : perché quando si è vecchi le mattine sembrano non finire mai  e perché quando verrà quel giorno in cui miei occhi non s’apriranno qualcuno possa continuare le cose che io ho lasciato a metà.

Mi alzo. Per poco non inciampo nel tappeto. Maledetta! Penso. E poi in un secondo l’assolvo.
Mi dirigo verso la libreria. Sfilo due volumi e una decina di riviste.
Ottengo quel che cerco.
Una vecchia copia di Repubblica, datata dieci Dicembre duemilaundici.
Lì dentro ci sono io.
Qualche tempo fa rovistavo in un vecchio scatolo di biancheria , rimasi quasi stordito dalla naftalina con cui era stato rimpinzato non ricordo neppure da chi. Ero convinto di cercare nel posto giusto.
Sul fondo dello scatolo, in una cartellina consumata , c’erano le mie lettere.
In realtà erano scritti , mai spediti.
Quando li presi tra le mani istintivamente li avvicinai al volto, come per sentirli davvero miei.
Come se temessi che quello non fossi più io. Che gli anni m’avessero cambiato , troppo.
Invece riscoprii  in quelle righe una storia meravigliosa.
La mia storia ,ma questo non importa.

Da qualche tempo , ogni sera li rileggo. Li ho nascosti in questa vecchia copia di Repubblica perché temo che Giulia possa scoprirli. In realtà qualcosa mi dice che lei già sappia, o forse tanto tempo fa gliene ho parlato o glieli ho addirittura letti. Se così è stato, non lo ricordo.
Per ora voglio che questo rimanga il segreto di un povero vecchio.

A diciassette anni , per la seconda volta nella mia vita , vidi l’America.
Tre cose ho amato sino ad oggi: le donne, la musica e l’America.
Forse sono preso dall’enfasi del ricordo, ma sono sicuro che di quei tempi era questo ciò che amavo.
Stetti a lungo negli USA. Partii da solo. Per la prima volta.
Sapevo , però , di non essere solo.
Da un po’ di mesi avevo conosciuto Corinne. Fu lei , sempre , in quelle settimane il destinatario della mia penna e , prima ancora, dei miei pensieri.
Trascorsi sulla East Coast quasi un mese, fu un estate indescrivibile. Oggi ricordo ogni ora , ogni volto di quei giorni.

…L’aeroporto è affollato , sono appena atterrato , tra un po’ prenderò il secondo volo per tornare in Italia, sono seduto  al gate d’imbarco. Io sono qui e scrivo, non so perché lo faccio , ma scrivo…

Desideravo che Corinne comparisse , sapevo che era impossibile, ma poi chiudevo gli occhi e davvero credevo che potesse accadere. Ho vissuto quella stessa sensazione  solo una seconda volta nella mia vita , tre anni fa , quando  ho dovuto fare i conti con i miei anni. Ero solo , steso in una sala d’ospedale e chiudevo gli occhi e stringevo le palpebre . Cercavo Giulia , per qualche minuto mi convinsi che lei fosse accanto a me , stringendomi la mano.

… sotto di noi c’è l’Oceano, sto tornando a casa, ti penso…

In quel viaggio scrissi come mai più sarebbe accaduto.
Era l’America , ara l’amore , era il turbamento di un tempo che mi sembra tanto lontano.
Oggi si confondono nel petto i sussulti di quei giorni; il profumo del cibo, le persone ancora care e un’ inesplicabile sensazione d’eterno. La mia mente e il mio cuore erano convinti che nessuna  di tutte quelle cose sarebbe finita. E infondo era vero.
Perché ero lì , in America, e scrivevo e ascoltavo la musica e pensavo a Corinne.

-E’pronta la cena , vieni!-
Si sporge oltre la soglia della porta ed esclama : - Ti ho preparato il pollo, fai presto che dopo scendiamo.-
Giulia mi chiama. Io fingo di dormire.
Sono vecchio e ho ancora tanto tempo.