venerdì 2 gennaio 2015

La felicità.



Spesso ci sentiamo come il protagonista senza nome del romanzo di Hugo, “L’ultimo giorno di un condannato a morte”: uomini sulla soglia della condanna capitale, nell’attesa angosciosa dell’esecuzione che diventa essa stessa forca, prima ancora della pena effettiva. Ci consumiamo sotto la fiamma dell’attesa di un tempo migliore e nuovo, scavando e indagando senza sosta,  fuori e dentro di noi, per donarci la felicità o investire gli eventi della vita del significato che alla felicità medesima attribuiamo.
Ci siamo abituati e abbiamo consacrato al senso comune l’idea di articolare la vita stessa per eventi o, come spesso diciamo, momenti. E dipingiamo questi ultimi, nella mente prima e nella loro narrazione poi, con tinte fosche o allegre; ci convinciamo che sia possibile individuare e classificare insiemi definiti di pietre miliari, indipendenti e insolidali.
Ho vissuto un tempo felice, quegli anni furono meravigliosi, questo è il momento più brutto della mia vita: così ci facciamo servi della massificazione dell’esistenza.
Ogni uomo è, nel firmamento della formidabile creazione di cui siamo parte, un essere dinamico, pulsante, inarrestabile, vivo e, in quanto vivo, avvinto da un moto di perpetua e strabiliante evoluzione. Ci anima una tensione eterna al bello e al sereno che l’animo nostro riconosce quando siamo in gioiosa armonia col mondo che ci abita e che abitiamo. In ogni istante ci sono universi che meritano di essere vissuti senza categorie a tenuta stagna, senza blindare i respiri in preda ad una smania di categorizzare che è la figlia primogenita dell’uomo razionale. Forse dovremmo imparare da ciò che ciascuno di noi è stato, dall’io fanciullo che da qualche parte ancora teniamo dentro, dobbiamo essere ogni giorno fanciulli che si lasciano cullare appoggiandosi ai seni materni, fanciulli nell’attitudine alle cose della vita e, allo stesso tempo, uomini e donne del nostro tempo per pensieri ed esperienze. Dobbiamo imparare a maneggiare con mani di bimbo  le vicende che attraversiamo e spogliarle dei giudizi di valore, mai più costringerle in ordini crescenti di intensità umana: siamo e saremo ciò che eravamo insieme a quello che oggi siamo, protagonisti mai paghi della commedia della vita, comprimari del grande spettacolo dell’esistenza universale. Felici, quando abbiamo nella testa gli anni che ci è dato di vivere e nel cuore l’inesperto spirito fanciullo.
Ecco, forse si approssima all’idea di felicità l’uomo che è uomo nelle architetture della ragione e bambino nelle corde dell’animo irrazionale ma che, nello stesso tempo, sa sottrarre la ragione al suo innato impulso di categorizzazione e sa impedire all’inesperienza del fanciullo l’oblio di ciò che ciascuno di noi è stato.

Se quello che è ho scritto è vero non so dirlo, se quello che ho scritto è realizzabile non so provarlo.

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