Vorrei essere un cesto di ciliegie colorate di rosso vermiglio, a tratti sfumate di bianco, per riflettere sulla superficie lucida il sole dei giorni d’estate, per essere portato alle labbra carnose da una donna prosperosa e poco vestita.
Il cesto che l’amante dona all’amata , col disincanto negli occhi, perso nello sguardo di giorni che non finiscono se non con un bacio di sera.
Ho mangiato ciliegie quand’ero bambino da maggio ad agosto , coi calzoni al ginocchio e il caldo che m’avvolgeva le tempie , mio padre seduto sulla sdraio al fresco e mia madre in cucina tra i piatti della domenica. Quando conobbi Lauretta le portai un piattino di ciliegie rossissime e lei in cambio mi baciò le guance , avevo dieci anni e mi bastò , arrossì tanto che non mi feci più vedere per due settimane. La prima notte di nozze Lauretta profumava di ciliegie e ci amammo intensamente ricordandoci bambini, stesi a guardare il soffitto con le mani intrecciate all’altezza dei nostri bacini nudi. I suoi seni sapevano di fragranze ignote e la sua carne sapeva di buono come sanno di buono i piatti della casa d’infanzia.
Misi i noccioli di tre o quattro ciliegie in una fionda improvvisata fatta col legno di un albicocco della terra di mia nonna, colpivo a più riprese la nuca di Alberto. Quanta gioia in quell’amicizia, quanto intendimento che nella mia vita non ho scorto più altrove. Poche cose bastavano allora, prima di conoscere le ragazze, prima che non ci bastassimo più noi.
Crescemmo però ricordandoci spesso quelle ciliegie. Condividendo silenzi scoprii il silenzio. Scoprii che non ti è vicino chi cerca l’affanno verboso di discorsi infiniti ma chi ti siede accanto tacendo e non provando imbarazzi. E senza arrossire scruta gli sguardi.
Mamma lavava nell’acqua gelata le ciliegie e io la guardavo come si guarda una santa , come si guarda la madonna , con l’amore quasi carnale del figlio. Poi lei mi passava accanto e distratta mi cedeva una ciliegia che io accoglievo sorridendo.
Quanto amore.