sabato 31 dicembre 2011

A chi c'è stato.

A chi c’è stato.
A chi ha parlato.
A chi ha taciuto.
A chi ha voluto.
A chi non ha temuto.
A chi è stato amaro.
A chi  non se ne è mai andato.
A chi è partito.
A chi con me ha condiviso.
A chi s’è seduto accanto.
A chi è cambiato.
A chi ha cambiato.
Me, noialtri.
Grazie.


venerdì 30 dicembre 2011

Indicibile.

Poi d’attesa.
Divorato dall’instabile sentore della vita nuova.
E rodeva il petto il dolce cancro dell’assenza.

A colloquio con la coscienza
scoprì
che ogni intelletto mendica amore.


lunedì 26 dicembre 2011

La vie en rose. Francesca.


Francesca è immersa nell’odore della lavanda.
Fuori è inverno , le imposte sono chiuse , il vento agita i salici di Rue de Dominique e il nevischio si scioglie sotto i passi dei primi viandanti.
Quando è estate e la lavanda è fresca ne tiene un piccolo mazzo sul davanzale perché le correnti d’aria che salgono su per la Senna possano accarezzarlo,  di notte , quando le imposte sono mezze aperte, quando il fresco le accarezza le gambe , insinuandosi sotto le lenzuola che sanno, come tutto nella vita di Francesca, di lavanda.
Il sole da queste parti e in questi tempi è cosa rara eppure a Rue de Dominique alle nove e mezzo del ventisei di Dicembre una luce biancastra invade ogni cosa.
La camicia da notte le arriva al ginocchio, ha i piedi gelati eppure non ha mai smesso di indossarne , da quando ha cinque anni. Lo fa perché le ricorda la nonna.
Bianca è morta un anno fa.
Era nata a Saint Pierre , un paesino della Provenza. Bianca sapeva di Provenza e per lei salire su a Parigi fu come morire una prima volta. Qualche settimana dopo il suo arrivo iniziò ad invecchiare , rovinosamente. I capelli si fecero grigi in pochi mesi; la sola gioia era Francesca.
La Provenza era nella stanza di Francesca.
Ogni mese si faceva mandare due enormi fasci di lavanda , uno per la sua stanza e uno per quella della nipote.
Le due chiudevano la porta , s’avvolgevano in un plaid di lana e restavano lì per ore.
Sole con Edith Piaf. La vie en rose suonava per pomeriggi interi e di primavera invadeva Rue de Dominique. E a Bianca ricordava la giovinezza e la terra sotto i piedi e l’odore del pane e dell’orzo e le mani ruvide di Armand. E i pranzi in campagna e le tavole imbandite e le gelse rosse che tingevano le labbra , le dita e le camicette di lino. Quando sentiva il cuore in gola e un senso d’ansia improvviso , come fosse oppressione, e le tremavano le braccia e poi le gambe e non riusciva a parlare e capiva che era amore.
Poi prendeva Francesca , l’ abbracciava e danzavano sulle note di Edith. E Bianca piangeva.
Ma c’era la lavanda e tutto passava. O forse le sembrava che così fosse.
Poggiavano il mento l’una sulla spalla dell’altra e i capelli rossi di Francesca si confondevano con quelli grigi di Bianca mentre fuori non c’era altro che Parigi.

La camicia da notte le arriva al ginocchio.
Le gambe sono bianchissime , come le mani , le braccia e il suo viso. E ciò a Francesca non piace.
Non l’è mai piaciuto e da quando è donna le piace ancor meno.
Come ogni mattina , lascia cadere la camicia da notte, che s’adagia sul tappeto e si guarda allo specchio, scioglie i capelli che le arrivano ai fianchi e le solleticano la carne.
Francesca non s’accorge di quanto sia bella.
Ha solo vent’anni e ha smesso d’amare due vite fa.
Siede alla scrivania e inizia a spazzolarsi i capelli , ogni colpo di spazzola attutisce le urla che vengono da dentro e il rumore che essa fa per sciogliere i nodi le piace perché è convinta che serva ad alleviare quell’inesplicabile senso di oppressione che non vuole abbandonarle il petto.
E’come una fascia che le comprime il torace , come una cattiva digestione , come un senso di nausea , come se un minuto dopo dovesse sostenere un esame , come quando al mattino ti svegli e avevi sognato che stavi per cadere e invece ti scopri al caldo nel tuo letto , come dopo una lunga corsa , improvvisa, ti senti affannato e un po’ stanco.
Questo è il petto di Francesca di questi tempi.

Rue de Dominique è insolitamente affollata e invasa da una dolcissima fragranza di cioccolato.
E’la brasserie all’angolo, ha delle meravigliose brioche in vetrina , s’intravedono a malapena perché il vetro è appannato per il vapore.
Francesca tiene le mani strette nelle tasche del suo cappotto di lana.
Con il pollice lascia scivolare il piccolo anello dall’anulare e con i polpastrelli riduce in polvere un rametto di lavanda essiccata. Le tasche di Francesca racchiudono un modo strano , come forse tutte le tasche.
A passi lunghi raggiunge l’incrocio con Rue du commerce. L’incanto di Parigi è indescrivibile.
Il vento fa volare il cappello che le raccoglie i capelli e d’improvviso Francesca si sente indifesa, sola.
Quando la folata di vento cessa il cappello si ferma ai piedi d’una panchina, su un piccolo molo, uno dei tanti a bordo Senna.
E nell’acqua si specchia il suo volto. E i tanti capelli rossi, e le guance bianche e il naso sottile arrossato dal freddo. Spera che il fiume si porti via quella sagoma per non restituirgliela più e faccia lo stesso con i suoi ricordi.
Tira le mani fuori dalle tasche  e lascia al vento la polvere della lavanda mentre sul palmo giace quel piccolo anello che fino a qualche secondo prima le cingeva l’anulare.


-          Tienilo è per te
-          Non posso ,è di tua madre non puoi darmelo
-          Prendilo
L’anulare lo accolse perfettamente come se fosse stato comprato per lei.
-          Promettimi che lo terrai sempre con te , sempre , anche quando non ci ameremo più , quando saremo lontani e i nostri ricordi saranno affievoliti , quando non ci vorremo più come in queste ore, promettimi che lo custodirai sempre fino a che ci saranno giorni, fino a che potrai tornare su questo molo e guardare la Senna , fino a che ci sarà Parigi , fino a quando le tue mani sapranno di lavanda.
    -       Sarò qui , a Rue de Dominique , ogni giorno ,le mie mani sapranno di lavanda fino a  che esisterà la Provenza.
Il molo poi scomparve e così il fiume e rue du commerce e le strade e i passanti e le luci fioche dei lampioni , restarono soli . Solo un bistrot con la porta socchiusa.
La luce s’infilava tra la porta e il muro per proiettarsi su loro.
E dall’interno , attutita, la melodia di Edith.


Notti d'amore senza fine
Una gran felicità che si fa largo
I fastidi, i dolori si cancellano
Felice, felice da morire.

giovedì 22 dicembre 2011

L'ultim'ora.

E’ entrata nel pullman alla terza fermata.
S’è seduta , s’è voltata verso il suo finestrino e ha iniziato a pregare.
Le mani di carta hanno iniziato a sgranare un rosario di legno. Le perle s’addentrano nella carne dei polpastrelli come fosse di burro.
Poi passiamo per una strada di campagna, il vecchio pullman sobbalza e con esso io e i miei pensieri.
Fuori è quasi sera.
Fa freddo. Tanto freddo.
Ogni volta che la porta s’apre qualcuno mugugna. Un vecchio seduto davanti tiene aperto il suo giornale , da un’ora alla stessa pagina.
Mezz’ora dopo il pullman è semivuoto.
Siamo rimasti in quattro.
Io , la signora della terza fermata, il vecchio col giornale e una studentessa di architettura.
Le luci iniziano a sibilare. Un ronzio le attraversa.
Poi un fischio, sordo , lungo.
La ragazza fatica  a trattenere i fogli tra le mani, sto per scivolare dal sedile ma per fortuna trovo un appiglio.
Poi il pullman si ferma e in pochi secondi il vecchio col giornale è a terra. Morto.
Ancora col giornale tra le mani, ancora alla stessa pagina.
Fuori fa freddo.
Incomincia a piovere. Sono le otto.
Quella della terza fermata non prega più. E’come pietrificata.
L’autista è fermo nel corridoio. Il suo sguardo è perso nel vuoto. La bocca è semi aperta.
Siamo tutti in silenzio. Solo la pioggia parla.
Tutti facciamo i conti con la nostra vita.

domenica 18 dicembre 2011

Dulcissime.


Che mi resta?
Mi resta l’incomprensione della scrittura.  Mi resta un foglio bianco a cui aggrapparmi . Null’altro .
Come tanti mesi fa sono qui. Al tavolo del silenzio. E parlo perché è quel che mi resta.
Cercavo conforto. Nessuno l’ha negato.
Troppo. In questi tempi tutto mi pare davvero troppo. Sostenerlo m’è arduo. Non so se resisterò. Non so fino a quando.
La parete è gelata. Pure il mio braccio lo è.
La stanza buia .E ripiombo. D’improvviso. E lo avverto .
Un’ultima lacrima solca il mio viso.

(Notte del 16 dicembre)

martedì 13 dicembre 2011

Ho deciso di morire.


Sono nato il 10 maggio 1992. Alle ore 13, 5 minuti, 24 secondi. Pesavo 3 chili e 500 grammi.
La stanza dove mia madre ha partorito era la numero 32.
Ho parlato per la prima volta a otto mesi , 15 giorni e qualche ora.
Ho detto: acqua.
Vivo da diciannove anni al numero 2 di via Roma. In un paesino del vesuviano.
9.549 anime.
Cinque anni di liceo, uno di università.
Sempre troppe soddisfazioni.

Oggi ho deciso di morire. Non so ancora come. Non ho studiato molto la cosa. Diciamo che entro stasera sarò altrove.
Muoio con una sola insoddisfazione: non assistere al mio funerale.
Ho sempre sognato di poter essere presente lì, quel giorno, nella navata, in un angolo della Chiesa (sempre che me la combinino la cerimonia dopo il suicidio). In disparte. Anzi nell’interstizio più nascosto, tra una parasta e una mezza colonna . Per osservare. Scrutare negli occhi dei presenti. Per ascoltare l’omelia del parroco, intento a raccontare una vita inesistente. Vorrei essere presente dopodomani , almeno spero che il tutto abbia termine tra due giorni, e starmene seduto ad origliare i discorsi dei presenti.
Già li immagino. Sarebbe una goduria.
Dispongo che nella mia bara ci siano accanto a me un libro di Pavese e uno di Levi , prendeteli pure dalla mia libreria. Ho scritto una breve lista, l’ho scritta  a matita , come avrei voluto scrivere ogni cosa in questi diciannove anni; ho indicato i nomi delle persone a cui ho tenuto di più , a ognuno di essi corrispondono due o più libri. Fate in modo che siano loro a venire qui , nella mia camera a prenderli. Così potranno ricordare le chiacchierate e sentire ancora una volta l’odore di carta che qui dentro impregna ogni cosa, persino le pareti.
Se avessi avuto un figlio l’avrei chiamato Enrico. Se avessi avuto una figlia l’avrei chiamata Bianca. Negli ultimi tempi avverto, guardando la mia foto di bambino, un’inesprimibile serenità.
Una sensazione che d’impeto parte dallo stomaco e mi inebria, in un secondo e io non me lo aspetto e per questo mi sento felice e mi viene da cantare.
Quando sono felice mi viene da cantare. Anche ora sono felice infatti mi viene da cantare. E’la felicità di un momento che dura il tempo di una canzone di De Gregori.
Se fosse possibile vorrei che dopodomani in chiesa il coro cantasse Titanic(non quella di Celine ma di Francesco). Se proprio non la sanno , nel primo cassetto accanto alla mia scrivania c’è un cd , la terza traccia è proprio quella.
Ricordatemi come volete. Anzi se non lo fate è meglio.
Sono sicuro che qualche cosa di me rimarrà nella mente di chi c’è stato.
Dissi che  per sempre sarei stato grato a chi m’ha fatto scorgere mondi che io  non ho saputo esplorare, ebbene questo sarà sino all’ istante prima dell’ultimo istante che mi sarò dato, il mio più grande comandamento.
Ho sempre odiato gli inetti. Sempre.
Forse , per amore della parola, dovrei dire gli indifferenti ma parrebbe una citazione d’Altri . Insomma ho amato e amerò ,anche quando voi starete intonando Titanic , chi m’ha portato tra le pareti di una casa sconosciuta o  dietro una porta rimasta socchiusa o tra le corde di una musica ignota e tra le parole di un autore dimenticato e nel mezzo di una storia che mai nessuno m’aveva narrato.
Ho vissuto questi miei anni con un solo timore. Dimenticare.
L’angoscia di non ricordare le storie , i volti e le parole che sono passate sulle mie labbra e di chi m’è stato accanto , il timore di perdere le sensazioni che ti inebriano e turbano per un istante ,mentre guardi fuori , alla finestra, mentre sei nella tua auto e oltre il vetro si muovono le strade, mentre sei seduto e hai sulle gambe l’amore, mi frustra sino all’ultimo minuto.
Dimenticavo, avrei tanto piacere se dopo la cerimonia in Chiesa potesse tenersi (anche a casa mia  andrebbe bene) un banchetto, una festicciola insomma. Garbata. Non troppo sobria però. Una cosa all’americana.
Tra un po’ smetterò di scrivere. Questo mi duole.
Chiunque abbia messo per qualche ora di più la penna sul foglio ha combattuto ogni secondo contro il fantasma dell’incomprensione.
Temo l’inesprimibile. Ho temuto di rimanervi avvinghiato. Di procedere senza che fuori si capisse.
Scrivete ciò su una piccola targa laddove mi getterete, ve lo appunto a matita su un postit.
“Non di sola ragione”

Non di sola ragione ho vissuto. Ma d’emozione e passione , d’impeto e amore. Senza trasporto non esiste vita.

 Un minuto, cinquantanove , cinquantotto , cinquantasette …a chi c’è stato…cinquanta… a chi verrà, a chi vorrà… quarantatrè.. non so perchè , se lo sapessi non andrei… trenta… se avessi il sentore di capire… venti… rimarrei un secondo di più… dieci, nove, otto…ma vado perché dentro dicono sia meglio così..tre, due , uno. Zero.

giovedì 8 dicembre 2011

Non di sola ragione.

Non sola ragione.
Ma impeto. Ve lo chiedo. A chi ci sarà. Nei giorni che verranno.

domenica 4 dicembre 2011

Discorsi da dentro. Astenersi amanti della buona lettura.

Ci sono momenti in cui ti piove dentro.
Ti senti profondamente solo. Non puoi farci niente, Stai li ad aspettare perché vorresti che succedesse qualcosa ma non succede nulla. Tu sei li con qualcosa che ti morde dentro. Succede da un momento all’altro. Un secondo prima ti senti felice , un secondo dopo oppresso.
Stai lì ed aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. E intanto dentro piangi.
Vorresti una parola, non una di quelle di cortesia . Una parola che colga quello che tieni dentro. Una parola che indaghi. Intanto dentro continuano a scavare. E vorresti una sedia e una stanza e un letto e stenderti e parlare parlare parlare parlare parlare . Anche per ore.
Senti che dentro stai cadendo. Matura piano. Poi esplode , da un secondo all’altro.
Vorresti piangere, sai per cosa, ma in fondo non lo sai.
Qualche cretino viene a chiederti – Oh, come va? Sicuro tutto a posto?-
E tu gli rispondi di si. Perché devi. Cosa puoi mai dirgli. La domanda è di circostanza. Lo sarà anche la risposta. E non può essere che così. Non potrebbe essere altrimenti.
Nessuno ti chiede cosa, si limitano al come. E dentro c’è un altro crollo.
Non chiederai mai. Perché sarebbe inutile. Vorrebbe dire che lì fuori nessuno capisce. Nessuno vede quel che succede lì dentro. E se nessuno capisce tanto vale crollare. Annegare. Dentro.
Ti senti galleggiare, come quando d’estate . Si , proprio come d’estate. Quando al mare c’è qualche migliaio di persone. Un casino mortale. Urla . Tutto è troppo. E ti lasci andare. Sulla superficie dell’acqua. Galleggi con le orecchie sommerse e non senti più nulla. Avverti un attimo di sereno.
E’tutto così. Tutto così maledettamente simile.
E ti chiedi perché. E non trovi risposta.
Vorresti camminare ,parlare per ore. O stare in silenzio. Non dire parola. Tanto basta respirare. Non serve parlare. Ci si capisce anche senza ma serve affinità. Serve guardarsi. Poi va da se. E inspiegabilmente ti sentiresti sereno.
Vorresti girarti e trovare un abbraccio. Forte. Che ti stringe le spalle. Le braccia. Vero.
Tanto se è di circostanza lo capisci. Perché non cambia nulla. Perché dentro sprofondi. Ancora di più. Per l’illusione . O disillusione.
Vorresti un appiglio. Non certezze, per carità.