sabato 31 dicembre 2011

A chi c'è stato.

A chi c’è stato.
A chi ha parlato.
A chi ha taciuto.
A chi ha voluto.
A chi non ha temuto.
A chi è stato amaro.
A chi  non se ne è mai andato.
A chi è partito.
A chi con me ha condiviso.
A chi s’è seduto accanto.
A chi è cambiato.
A chi ha cambiato.
Me, noialtri.
Grazie.


venerdì 30 dicembre 2011

Indicibile.

Poi d’attesa.
Divorato dall’instabile sentore della vita nuova.
E rodeva il petto il dolce cancro dell’assenza.

A colloquio con la coscienza
scoprì
che ogni intelletto mendica amore.


lunedì 26 dicembre 2011

La vie en rose. Francesca.


Francesca è immersa nell’odore della lavanda.
Fuori è inverno , le imposte sono chiuse , il vento agita i salici di Rue de Dominique e il nevischio si scioglie sotto i passi dei primi viandanti.
Quando è estate e la lavanda è fresca ne tiene un piccolo mazzo sul davanzale perché le correnti d’aria che salgono su per la Senna possano accarezzarlo,  di notte , quando le imposte sono mezze aperte, quando il fresco le accarezza le gambe , insinuandosi sotto le lenzuola che sanno, come tutto nella vita di Francesca, di lavanda.
Il sole da queste parti e in questi tempi è cosa rara eppure a Rue de Dominique alle nove e mezzo del ventisei di Dicembre una luce biancastra invade ogni cosa.
La camicia da notte le arriva al ginocchio, ha i piedi gelati eppure non ha mai smesso di indossarne , da quando ha cinque anni. Lo fa perché le ricorda la nonna.
Bianca è morta un anno fa.
Era nata a Saint Pierre , un paesino della Provenza. Bianca sapeva di Provenza e per lei salire su a Parigi fu come morire una prima volta. Qualche settimana dopo il suo arrivo iniziò ad invecchiare , rovinosamente. I capelli si fecero grigi in pochi mesi; la sola gioia era Francesca.
La Provenza era nella stanza di Francesca.
Ogni mese si faceva mandare due enormi fasci di lavanda , uno per la sua stanza e uno per quella della nipote.
Le due chiudevano la porta , s’avvolgevano in un plaid di lana e restavano lì per ore.
Sole con Edith Piaf. La vie en rose suonava per pomeriggi interi e di primavera invadeva Rue de Dominique. E a Bianca ricordava la giovinezza e la terra sotto i piedi e l’odore del pane e dell’orzo e le mani ruvide di Armand. E i pranzi in campagna e le tavole imbandite e le gelse rosse che tingevano le labbra , le dita e le camicette di lino. Quando sentiva il cuore in gola e un senso d’ansia improvviso , come fosse oppressione, e le tremavano le braccia e poi le gambe e non riusciva a parlare e capiva che era amore.
Poi prendeva Francesca , l’ abbracciava e danzavano sulle note di Edith. E Bianca piangeva.
Ma c’era la lavanda e tutto passava. O forse le sembrava che così fosse.
Poggiavano il mento l’una sulla spalla dell’altra e i capelli rossi di Francesca si confondevano con quelli grigi di Bianca mentre fuori non c’era altro che Parigi.

La camicia da notte le arriva al ginocchio.
Le gambe sono bianchissime , come le mani , le braccia e il suo viso. E ciò a Francesca non piace.
Non l’è mai piaciuto e da quando è donna le piace ancor meno.
Come ogni mattina , lascia cadere la camicia da notte, che s’adagia sul tappeto e si guarda allo specchio, scioglie i capelli che le arrivano ai fianchi e le solleticano la carne.
Francesca non s’accorge di quanto sia bella.
Ha solo vent’anni e ha smesso d’amare due vite fa.
Siede alla scrivania e inizia a spazzolarsi i capelli , ogni colpo di spazzola attutisce le urla che vengono da dentro e il rumore che essa fa per sciogliere i nodi le piace perché è convinta che serva ad alleviare quell’inesplicabile senso di oppressione che non vuole abbandonarle il petto.
E’come una fascia che le comprime il torace , come una cattiva digestione , come un senso di nausea , come se un minuto dopo dovesse sostenere un esame , come quando al mattino ti svegli e avevi sognato che stavi per cadere e invece ti scopri al caldo nel tuo letto , come dopo una lunga corsa , improvvisa, ti senti affannato e un po’ stanco.
Questo è il petto di Francesca di questi tempi.

Rue de Dominique è insolitamente affollata e invasa da una dolcissima fragranza di cioccolato.
E’la brasserie all’angolo, ha delle meravigliose brioche in vetrina , s’intravedono a malapena perché il vetro è appannato per il vapore.
Francesca tiene le mani strette nelle tasche del suo cappotto di lana.
Con il pollice lascia scivolare il piccolo anello dall’anulare e con i polpastrelli riduce in polvere un rametto di lavanda essiccata. Le tasche di Francesca racchiudono un modo strano , come forse tutte le tasche.
A passi lunghi raggiunge l’incrocio con Rue du commerce. L’incanto di Parigi è indescrivibile.
Il vento fa volare il cappello che le raccoglie i capelli e d’improvviso Francesca si sente indifesa, sola.
Quando la folata di vento cessa il cappello si ferma ai piedi d’una panchina, su un piccolo molo, uno dei tanti a bordo Senna.
E nell’acqua si specchia il suo volto. E i tanti capelli rossi, e le guance bianche e il naso sottile arrossato dal freddo. Spera che il fiume si porti via quella sagoma per non restituirgliela più e faccia lo stesso con i suoi ricordi.
Tira le mani fuori dalle tasche  e lascia al vento la polvere della lavanda mentre sul palmo giace quel piccolo anello che fino a qualche secondo prima le cingeva l’anulare.


-          Tienilo è per te
-          Non posso ,è di tua madre non puoi darmelo
-          Prendilo
L’anulare lo accolse perfettamente come se fosse stato comprato per lei.
-          Promettimi che lo terrai sempre con te , sempre , anche quando non ci ameremo più , quando saremo lontani e i nostri ricordi saranno affievoliti , quando non ci vorremo più come in queste ore, promettimi che lo custodirai sempre fino a che ci saranno giorni, fino a che potrai tornare su questo molo e guardare la Senna , fino a che ci sarà Parigi , fino a quando le tue mani sapranno di lavanda.
    -       Sarò qui , a Rue de Dominique , ogni giorno ,le mie mani sapranno di lavanda fino a  che esisterà la Provenza.
Il molo poi scomparve e così il fiume e rue du commerce e le strade e i passanti e le luci fioche dei lampioni , restarono soli . Solo un bistrot con la porta socchiusa.
La luce s’infilava tra la porta e il muro per proiettarsi su loro.
E dall’interno , attutita, la melodia di Edith.


Notti d'amore senza fine
Una gran felicità che si fa largo
I fastidi, i dolori si cancellano
Felice, felice da morire.

giovedì 22 dicembre 2011

L'ultim'ora.

E’ entrata nel pullman alla terza fermata.
S’è seduta , s’è voltata verso il suo finestrino e ha iniziato a pregare.
Le mani di carta hanno iniziato a sgranare un rosario di legno. Le perle s’addentrano nella carne dei polpastrelli come fosse di burro.
Poi passiamo per una strada di campagna, il vecchio pullman sobbalza e con esso io e i miei pensieri.
Fuori è quasi sera.
Fa freddo. Tanto freddo.
Ogni volta che la porta s’apre qualcuno mugugna. Un vecchio seduto davanti tiene aperto il suo giornale , da un’ora alla stessa pagina.
Mezz’ora dopo il pullman è semivuoto.
Siamo rimasti in quattro.
Io , la signora della terza fermata, il vecchio col giornale e una studentessa di architettura.
Le luci iniziano a sibilare. Un ronzio le attraversa.
Poi un fischio, sordo , lungo.
La ragazza fatica  a trattenere i fogli tra le mani, sto per scivolare dal sedile ma per fortuna trovo un appiglio.
Poi il pullman si ferma e in pochi secondi il vecchio col giornale è a terra. Morto.
Ancora col giornale tra le mani, ancora alla stessa pagina.
Fuori fa freddo.
Incomincia a piovere. Sono le otto.
Quella della terza fermata non prega più. E’come pietrificata.
L’autista è fermo nel corridoio. Il suo sguardo è perso nel vuoto. La bocca è semi aperta.
Siamo tutti in silenzio. Solo la pioggia parla.
Tutti facciamo i conti con la nostra vita.

domenica 18 dicembre 2011

Dulcissime.


Che mi resta?
Mi resta l’incomprensione della scrittura.  Mi resta un foglio bianco a cui aggrapparmi . Null’altro .
Come tanti mesi fa sono qui. Al tavolo del silenzio. E parlo perché è quel che mi resta.
Cercavo conforto. Nessuno l’ha negato.
Troppo. In questi tempi tutto mi pare davvero troppo. Sostenerlo m’è arduo. Non so se resisterò. Non so fino a quando.
La parete è gelata. Pure il mio braccio lo è.
La stanza buia .E ripiombo. D’improvviso. E lo avverto .
Un’ultima lacrima solca il mio viso.

(Notte del 16 dicembre)

martedì 13 dicembre 2011

Ho deciso di morire.


Sono nato il 10 maggio 1992. Alle ore 13, 5 minuti, 24 secondi. Pesavo 3 chili e 500 grammi.
La stanza dove mia madre ha partorito era la numero 32.
Ho parlato per la prima volta a otto mesi , 15 giorni e qualche ora.
Ho detto: acqua.
Vivo da diciannove anni al numero 2 di via Roma. In un paesino del vesuviano.
9.549 anime.
Cinque anni di liceo, uno di università.
Sempre troppe soddisfazioni.

Oggi ho deciso di morire. Non so ancora come. Non ho studiato molto la cosa. Diciamo che entro stasera sarò altrove.
Muoio con una sola insoddisfazione: non assistere al mio funerale.
Ho sempre sognato di poter essere presente lì, quel giorno, nella navata, in un angolo della Chiesa (sempre che me la combinino la cerimonia dopo il suicidio). In disparte. Anzi nell’interstizio più nascosto, tra una parasta e una mezza colonna . Per osservare. Scrutare negli occhi dei presenti. Per ascoltare l’omelia del parroco, intento a raccontare una vita inesistente. Vorrei essere presente dopodomani , almeno spero che il tutto abbia termine tra due giorni, e starmene seduto ad origliare i discorsi dei presenti.
Già li immagino. Sarebbe una goduria.
Dispongo che nella mia bara ci siano accanto a me un libro di Pavese e uno di Levi , prendeteli pure dalla mia libreria. Ho scritto una breve lista, l’ho scritta  a matita , come avrei voluto scrivere ogni cosa in questi diciannove anni; ho indicato i nomi delle persone a cui ho tenuto di più , a ognuno di essi corrispondono due o più libri. Fate in modo che siano loro a venire qui , nella mia camera a prenderli. Così potranno ricordare le chiacchierate e sentire ancora una volta l’odore di carta che qui dentro impregna ogni cosa, persino le pareti.
Se avessi avuto un figlio l’avrei chiamato Enrico. Se avessi avuto una figlia l’avrei chiamata Bianca. Negli ultimi tempi avverto, guardando la mia foto di bambino, un’inesprimibile serenità.
Una sensazione che d’impeto parte dallo stomaco e mi inebria, in un secondo e io non me lo aspetto e per questo mi sento felice e mi viene da cantare.
Quando sono felice mi viene da cantare. Anche ora sono felice infatti mi viene da cantare. E’la felicità di un momento che dura il tempo di una canzone di De Gregori.
Se fosse possibile vorrei che dopodomani in chiesa il coro cantasse Titanic(non quella di Celine ma di Francesco). Se proprio non la sanno , nel primo cassetto accanto alla mia scrivania c’è un cd , la terza traccia è proprio quella.
Ricordatemi come volete. Anzi se non lo fate è meglio.
Sono sicuro che qualche cosa di me rimarrà nella mente di chi c’è stato.
Dissi che  per sempre sarei stato grato a chi m’ha fatto scorgere mondi che io  non ho saputo esplorare, ebbene questo sarà sino all’ istante prima dell’ultimo istante che mi sarò dato, il mio più grande comandamento.
Ho sempre odiato gli inetti. Sempre.
Forse , per amore della parola, dovrei dire gli indifferenti ma parrebbe una citazione d’Altri . Insomma ho amato e amerò ,anche quando voi starete intonando Titanic , chi m’ha portato tra le pareti di una casa sconosciuta o  dietro una porta rimasta socchiusa o tra le corde di una musica ignota e tra le parole di un autore dimenticato e nel mezzo di una storia che mai nessuno m’aveva narrato.
Ho vissuto questi miei anni con un solo timore. Dimenticare.
L’angoscia di non ricordare le storie , i volti e le parole che sono passate sulle mie labbra e di chi m’è stato accanto , il timore di perdere le sensazioni che ti inebriano e turbano per un istante ,mentre guardi fuori , alla finestra, mentre sei nella tua auto e oltre il vetro si muovono le strade, mentre sei seduto e hai sulle gambe l’amore, mi frustra sino all’ultimo minuto.
Dimenticavo, avrei tanto piacere se dopo la cerimonia in Chiesa potesse tenersi (anche a casa mia  andrebbe bene) un banchetto, una festicciola insomma. Garbata. Non troppo sobria però. Una cosa all’americana.
Tra un po’ smetterò di scrivere. Questo mi duole.
Chiunque abbia messo per qualche ora di più la penna sul foglio ha combattuto ogni secondo contro il fantasma dell’incomprensione.
Temo l’inesprimibile. Ho temuto di rimanervi avvinghiato. Di procedere senza che fuori si capisse.
Scrivete ciò su una piccola targa laddove mi getterete, ve lo appunto a matita su un postit.
“Non di sola ragione”

Non di sola ragione ho vissuto. Ma d’emozione e passione , d’impeto e amore. Senza trasporto non esiste vita.

 Un minuto, cinquantanove , cinquantotto , cinquantasette …a chi c’è stato…cinquanta… a chi verrà, a chi vorrà… quarantatrè.. non so perchè , se lo sapessi non andrei… trenta… se avessi il sentore di capire… venti… rimarrei un secondo di più… dieci, nove, otto…ma vado perché dentro dicono sia meglio così..tre, due , uno. Zero.

giovedì 8 dicembre 2011

Non di sola ragione.

Non sola ragione.
Ma impeto. Ve lo chiedo. A chi ci sarà. Nei giorni che verranno.

domenica 4 dicembre 2011

Discorsi da dentro. Astenersi amanti della buona lettura.

Ci sono momenti in cui ti piove dentro.
Ti senti profondamente solo. Non puoi farci niente, Stai li ad aspettare perché vorresti che succedesse qualcosa ma non succede nulla. Tu sei li con qualcosa che ti morde dentro. Succede da un momento all’altro. Un secondo prima ti senti felice , un secondo dopo oppresso.
Stai lì ed aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. Aspetti. E intanto dentro piangi.
Vorresti una parola, non una di quelle di cortesia . Una parola che colga quello che tieni dentro. Una parola che indaghi. Intanto dentro continuano a scavare. E vorresti una sedia e una stanza e un letto e stenderti e parlare parlare parlare parlare parlare . Anche per ore.
Senti che dentro stai cadendo. Matura piano. Poi esplode , da un secondo all’altro.
Vorresti piangere, sai per cosa, ma in fondo non lo sai.
Qualche cretino viene a chiederti – Oh, come va? Sicuro tutto a posto?-
E tu gli rispondi di si. Perché devi. Cosa puoi mai dirgli. La domanda è di circostanza. Lo sarà anche la risposta. E non può essere che così. Non potrebbe essere altrimenti.
Nessuno ti chiede cosa, si limitano al come. E dentro c’è un altro crollo.
Non chiederai mai. Perché sarebbe inutile. Vorrebbe dire che lì fuori nessuno capisce. Nessuno vede quel che succede lì dentro. E se nessuno capisce tanto vale crollare. Annegare. Dentro.
Ti senti galleggiare, come quando d’estate . Si , proprio come d’estate. Quando al mare c’è qualche migliaio di persone. Un casino mortale. Urla . Tutto è troppo. E ti lasci andare. Sulla superficie dell’acqua. Galleggi con le orecchie sommerse e non senti più nulla. Avverti un attimo di sereno.
E’tutto così. Tutto così maledettamente simile.
E ti chiedi perché. E non trovi risposta.
Vorresti camminare ,parlare per ore. O stare in silenzio. Non dire parola. Tanto basta respirare. Non serve parlare. Ci si capisce anche senza ma serve affinità. Serve guardarsi. Poi va da se. E inspiegabilmente ti sentiresti sereno.
Vorresti girarti e trovare un abbraccio. Forte. Che ti stringe le spalle. Le braccia. Vero.
Tanto se è di circostanza lo capisci. Perché non cambia nulla. Perché dentro sprofondi. Ancora di più. Per l’illusione . O disillusione.
Vorresti un appiglio. Non certezze, per carità.

lunedì 28 novembre 2011

La storia di Adele.


Adele se ne stava seduta sul muretto per cinque ore al giorno senza parlare.
Il gelo dell’inverno sulla carne le doleva come una ferita aperta. Non poteva lamentarsi, non le era consentita protesta.
Un paio di scarpe con la zeppa. Di sughero consumato.
Il vestito le arrivava al ginocchio, faceva schifo. Puzzava di fumo. Era sporco. Sudicio per colpa di quegli uomini di merda. Due sere prima un vecchio le aveva pisciato addosso.
Puzzava di piscio dalla testa ai piedi Adele. Fumo e piscio. Questa era la sua vita.

Una sigaretta sta lì a consumarsi. Sul cemento. E’fumata a metà. Il rossetto l’ha marcata.
Quando lo pneumatico passa bruscamente un’ultima scheggia rossastra fende l’aria sopra l’asfalto.

-Quanto vuoi?-
-Cosa vuoi?-
-Solito-
-Ok, pagami il solito-

Tutto è diventato solito.
Una vita brutta la sua. Adele lo sapeva ma non ci pensava troppo. Credeva che un giorno sarebbe cambiato qualcosa.
Quando aveva iniziato era poco più che ventenne. Già un figlio.
Da allora nulla era cambiato.
Fino ai sei anni Alfredo se ne era stato nella macchina di Adele ogni santo giorno.
Quel ragazzino aveva una tempra strabiliante. Restava seduto sui sedili puzzolenti della cinquecento con tra le mani uno dei giocattoli occasionali che le colleghe della madre a turno gli passavano. Restava seduto lì per le cinque ore di lavoro della mamma.
Fuori pioveva. Una volta nevicava. Un’altra ancora era grandinato.
Alfredo era rimasto avvolto in un vecchio piumone fino alle tre di notte.

Alle tre della notte Alfredo cenava con la mamma.
Una pila di panni sulla sedia. Orzo e latte scremato. Fette biscottate. Niente di più.
Lei poi andava in salotto , si toglieva le scarpe , accendeva la sua sigaretta e s’addormentava fumando. I piedi sul bracciolo del divano e lo smalto rosso scrostato delle unghie, questo si vedeva dalla cucina dove Alfredo rimaneva a mangiare. Poi s’alzava anche lui, posava la tazza. Copriva la mamma con un plaid e andava  a dormire. Alfredo aveva solo sette anni.

A mezzogiorno un terribile mal di testa le fendeva le tempie. Stordita s’alzava.
Aveva una finissima vestaglia di seta , con un grazioso colletto ricamato di pizzo fiorentino tutto insudiciato. Il bianco che sapeva di lavanda s’era fatto grigio odor tabacco.
I polsi erano consumati , quello sinistro bucato.
Alla mezza , ogni giorno, passava Susi,una vecchia collega. Ogni giorno Adele le dava la metà del ricavato della sera precedente perché lo facesse fruttare. Susi investiva per Adele.
Al bar, dietro la sala per la carambola.
Una volta cinquantamila lire erano diventate settanta. Una volta sola.
Alla sera quando le due si incontravano a lavoro Susi le rendeva quanto rimasto , trattenendo le spese per la prestazione.



***




Alle 10 Alfredo chiude la porta della sua camera.
Il pavimento è freddo. Tenta di spostarsi sul tappeto del corridoio. Fa sempre così. Da Novembre a Febbraio. Talvolta anche i primi di Marzo. Ma di solito in quei giorni fa già abbastanza caldo e allora si può camminare sulle mattonelle graffiate.
Nel salotto la stufa è ancora accesa e la puzza di gas è nauseante.
Il tepore è misto all’odore pungente dell’alcool e del vomito. Quell’odore che ti entra nelle narici per rimanerci l’intera giornata , a volte l’intera vita.
La porta è chiusa. Dentro, un vecchio vinile della Callas fa vibrare quel po’ di arredo rimasto.
Il tappeto è accartocciato.  Una sigaretta deve averne bruciate le frange durante la notte.
Adele è avvolta nella sua vestaglia. Il plaid le è scivolato. Giace sul pavimento come un grosso gatto marrone.
Alfredo lo raccoglie per coprire la mamma.
Le gambe di Adele sono ancora tanto belle.
Ogni notte , da quando aveva sette anni, Alfredo passa nel salotto per accarezzarle. S’assicura che la mamma dorma per poi andare in camera.
Quella mattina le gambe di Adele erano insolitamente fredde.
Il palmo toccava la pelle stranamente tesa, stranamente gelata. I brividi salirono su per il braccio fino alla spalla destra. Il corpo comprese prima della mente. La carne comunicò al cuore.

Il volto in un smorfia innaturale. Un ghigno di dolore si era fermato sulle labbra biancastre.
Gli occhi aperti , persi nel vuoto. Incastrata tra le dita pietrificate ,una lettera.

Amato , per sempre mio , figlio.
Nell’ultimo giorno che ho deciso di vivere mi rivolgo a te che hai saputo, più di ogni altro, nella mia brutta vita , essere sempre , con affetto, a me vicino.
Nell’ ultim’ora , nella mente ,rimane caldo il ricordo del tempo che mi fu dato prima che tu nascessi; nel ricordo di quei giorni ho vissuto gli anni che il Signore Dio m’ha concesso e che io, per l’atto che sto  compiendo , non sono più degna di pregare.
Sappi che il rimorso per le  notti che trascorresti all’addiaccio mi perseguita anche nell’ora della morte.
Della tua nascita parlammo nei momenti  in cui la mente mia non era avvolta dai fumi dell’alcool e della droga. Quelle pillole m’hanno aiutato a sopravvivere. La vita l’avevo abbandonata da tempo.
L’amata Maria accompagnerà, col suo canto, il mio ultimo respiro.
So che nessuna tua lacrima bagnerà questa carta , ciò perché sei forte e sei uomo da quando i tuoi amici erano nelle loro case tra le braccia dei padri.
So che tu hai sempre conosciuto la mia vita vera. Lo lessi nei tuoi sguardi, lo compresi dalle tue parole.
Ti comando , Alfredo, di cercare Francesca. Lei ti tenne al seno nelle notti in cui io non facevo ritorno. Ti curò. Fu per te madre e serena confidente.
Dille che l’ho amata. Sempre. Anche nelle ore più oscure , quando ci fu impedito , nei tempi più bui della mia coscienza quando il mio corpo non consentiva ragione.
Dille che…
 … prima che Alfredo nascesse ci siamo volute nel segreto delle stanze di caseggiati lontani dalle nostre dimore perché non si conveniva a famiglie borghesi,perché quelle come noi dovevano nascondersi. Fu allora, Francesca, che ti amai più di sempre.
Mai ho rimpianto d’aver abbandonato le stupidità di una  ragazza del ceto medio.
Vivemmo davvero quando lasciammo l’Italia. Fummo da allora ,per i due inverni che seguirono, una sola persona.
Quando queste mani cesseranno di scrivere, quando le braccia non si muoveranno e io giacerò esanime su questi cuscini custodirò in eterno le sensazioni che insieme vivemmo a Brixton.
Le Domeniche si rincorsero amandoci.
I mesi trascorsero nel desiderio di una vita insieme.
Non abbiamo potuto perché questo mondo ci ha volute diverse. Fummo per esso storpie  puttane.
E ora , nell’istante che precede la morte, devo, per Alfredo e per i suoi figli e per mio padre e per le donne che verranno , consegnare la mia storia a te.
Abbandona la strada. Riprenditi quel che ci tolsero e che io, per l’inettitudine mia, più non volli.
Racconta quanto fu bello baciarci,quando veniva la sera e il mondo ci conosceva diverse e fu bello nelle ore tristi e fu bello nei momenti più sereni. Racconta delle margherite che ti mandavo , racconta gli abbracci , l’amore. Dici di quando ballavamo strette l’una all’altra e fuori il vento agitava gli alberi; quando piangevamo , di notte ,davanti allo stesso libro.
Torna ,un giorno,con Alfredo a Brixton e mostragli l’albero sotto cui facemmo all’amore e digli che se anche suo padre non l’ho mai conosciuto lui fu, per noi, concepito lì.
Per te e per Alfredo vado via , perche il ricordo di quello che è stato non sia cancellato dalla mia mente non più lucida , non più viva.
Per amore, Addio.

Adele.

venerdì 25 novembre 2011

La ragazza di fronte.




La notte prima avevo sognato.
Avevo sognato tanto. Non mi capitava da un pò.
Era uno di quei sogni che ti riempiono di gioia. Uno di quelli che se anche non ricordi ti fanno stare bene. Uno di quelli che quando sei sveglio preghi il Signore di farti riaddormentare. Per continuare a sognare. Ancora un secondo. Giusto un istante di più.
Poi può cadere il mondo. Tanto non te ne fotte un cazzo. Perché tu vuoi rimanere li.
Solo col tuo sogno.

Non volevo sapere nulla di quello che accadeva là fuori. Là fuori fa freddo. Un freddo bestiale. Eppure io adoro il freddo.
Ma voglio stare qui. Nel mio letto. Mezzo stordito da un sogno dimenticato.
Ieri ho dato l'esame, mi prendo un'ora in più qui sotto.
Qualcuno dentro mi dice di alzarmi e darmi da fare. Ma è quasi Natale e che cazzo vuoi che sia un'ora in più.
Mi alzo lo stesso. Vado a zonzo per le stanze gelate.
Mi faccio un the scuro, più scuro del solito, senza una goccia di limone, tanto zucchero.
Uno , due , tre ... ma si...quattro cucchiaini. È bollente. Mi ustiono la lingua. Ma mi piace.
Mi piace sentire sotto i denti la lingua spugnosa. Dolente. Così ho di che lamentarmi. Un modo per iniziare male la giornata.

La scrivania fa più schifo del solito. C'è tempera ovunque.
Prendo il libro, segno la data e il voto dell'esame.
È un vezzo. Una di quelle cose che ti consolano e non sai neppure perchè.
Poi lo guardo. Mi prende l'acidità allo stomaco. Mi succede sempre al mattino. Alla stessa ora. Non ho capito perchè. Dovrei farmi vedere da un medico ma non mi va.
Sorseggio il the bollente. Mi dà sollievo. So che non posso continuare così ma la precarietà mi piace. Mi fa sentire sollevato, sempre. Così se qualcosa non va è colpa della precarietà. Sono i conti che non tornano. Non è mica colpa mia.

Mi siedo. La seduta è fredda. I brividi mi salgono su per la schiena.
Oggi non c'è sole. Menomale. Non faticherò a chiudere e aprire le tende.
Mi rialzo e le apro quanto basta.
Ogni giorno le apro quanto basta . Non è vero, mento. Le apro quanto basta da qualche tempo a questa parte.
Da quando quella di fronte ha deciso di stabilirsi con la sua stanza dirimpetto alla mia.
Maledetta decisione. Che stronza. Non poteva starsene dall'altro lato del condominio.
Laggiù , in culo al mondo. Non l'avrebbe vista nessuno.

Anche oggi è già lì. Le tende spalancate. Non come le mie. Le mie sono aperte quanto basta. Le sue no.
Sta alla scrivania. Come ogni mattina a quest'ora. Come ogni giorno. Da due mesi, insistentemente lì. Si è seduta prima di me.
Vorrei andare al  balcone , chiamarla e dire : “Oh stronza! Mi dici per quale fottutissimo motivo ti sei piazzata lì?”.Non lo farò mai. Ne sono certo. Intanto mi illudo che possa capitare. Forse un giorno accadrà. Spero che accada. O forse no.

Su e giù per quella stanza.
Eccola. Come sempre riempie un’enorme tazza. La posa sulla scrivania. Inizia a tamburellare con il culo della sua HB ogni giorno più piccola. A fine giornata la butterà. Oggi è venerdì. Ogni matita le dura non più di una settimana.
Tra un po’ accenderà la radio. Come volevasi dimostrare.
Come sempre si parte con Simon & Garfunkel… Hello, darkness, my old friend I've come to talk with you again.
Quanta verità. Quanta tristezza.
 Sento gli occhi umidi. Ma che faccio?Porca troia. Non posso piangere. Non sto piangendo. Sono solo lacrime. Non posso piangere.
Ecco lo sapevo. Mi tocca chiudere le tende.
Tra qualche minuto scenderà dal suo terzo piano. Inizierà a correre per l’intero isolato. Venti minuti ogni giorno.
Anche io scenderò. Come ogni giorno. Per venti minuti.
Comprerò il mio giornale. E , come sempre, provvederò ad accantonarlo. Con cura. Meticolosamente. Senza leggerne neppure un rigo.

Sono trascorsi i venti minuti d’aria.
Apro il portone. In tre secondi sono a terra. Penso di essermi rotto il naso. Grondo sangue.
La mia guancia destra è sul pavimento freddo. Come cazzo è successo!
Mi rialzo. La suola della scarpa sinistra mi ha tradito. Ho un foglio stropicciato attaccato alla punta.
E’tutto infangato ma leggibile.

-Ti va un the scuro senza limone?-
Firmato – Quella di fronte- .

Gioia infinita.

domenica 30 ottobre 2011

San Sebastiano al Vesuvio: piccoli Berlusconi crescono.




“Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un Paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a doppio filo a un passato politicamente ed economicamente fallimentare.”
E’ il 26 Gennaio del 1994 quando l’imprenditore Berlusconi seppellisce definitivamente gli ultimi resti della Prima Repubblica. Il palazzinaro di Milano 2 e magnate della televisione privata rompe ogni schema. Senza alcun cursus honorum e senza alcuna esperienza o coscienza politica si presenta agli elettori,nel giro di due mesi fonda  un nuovo partito e con il suo “Polo del Buon Governo” conquista la Penisola.
Si apre il ventennio berlusconiano.
Come è stato possibile?
Berlusconi ha rappresentato ,senza dubbio,l’uomo giusto al momento giusto.
Ha saputo , con maestria, cavalcare l’onda dell’antipolitica. Forte del dilagante disprezzo nutrito verso la classe dirigente (democristiana e socialista in primis) travolta da Tangentopoli, ha sedotto milioni di Italiani , raccontando loro ciò che essi volevano sentirsi dire.
Con la benedizione della Mammì , attraverso un’ingente operazione mediatica , quello che molti  troppo sbrigativamente definirono il“partito di plastica” divenne l’ancora di  salvezza in un Paese allo sbando. La Gioiosa macchina da guerra andò a farsi benedire. E Silvio arrivò a palazzo Chigi.

Oggi però la magia berlusconiana si è assopita. Il Cavaliere non è più il leader carismatico d’un tempo, anzi non è più un leader.
Tuttavia mentre a Roma si consuma la fine del Ventennio dalle nostre parti piccoli Berlusconi crescono.
In quella che molti ebbero a definire Piccola Svizzera, la Prima Repubblica non è mai tramontata. Nel Bengodi , infatti, vale il postulato che fu di Lavoisier : nulla si crea, nulla si distrugge , tutto si trasforma. Fatta salva qualche brillante eccezione il principio è (politicamente, beninteso) più che calzante.
Qualcuno infatti ha ,maliziosamente, rinominato la cittadina “Capassopoli”, in ragione degli oramai quattro mandati dell’attuale primo cittadino e delle molteplici investiture del ben noto padre.  Sarebbe , però, intellettualmente onesto da parte di costoro chiedersi il perché di una tanto reiterata fiducia nei confronti dei medesimi rappresentanti. Ma soprassediamo.
L’ultima tornata elettorale ha portato con sé un nuovo soggetto politico. Ha consegnato alla storia della cittadina una sparigliante “discesa in campo”. Insomma da qualche mese anche Bengodi ha il suo Berlusconino (non si intenda il termine in senso irriverente! chi scrive vuol solo dire che il nostro homo novus  di strada da fare ne ha ancora tanta).
Tutto , ma proprio tutto, riporta alla mente l’ascesa del ricco imprenditore milanese,un tempo palazzinaro oggi Presidente del Consiglio.
La ricetta è la stessa: pane, populismo e demagogia.
Che al Cavaliere de noantri manchino molte delle virtù dell’ispiratore Silvio è ben evidente. Prima tra tutte una certa retorica che gli studi di Giurisprudenza hanno assicurato al Primo Ministro. Ma , al di là della favella ,ciò che più preoccupa gli uomini di buona volontà è una tattica ,oramai  tipica, del più becero berlusconismo  importata dalle nostre parti:la sistematica distruzione e demonizzazione dell’avversario politico.
I più in questi mesi hanno assistito al rigurgito di un’antica tradizione berlusconiana , la cosiddetta propaganda a tappeto. Se il Berlusconi dei primi tempi fece della tivù il veicolo prediletto per entrare senza bussare nelle case degli Italiani , propinando a manca e a destra mielosissimi spot che ingenerarono presso i più deboli la venerazione del leader, altrettanto tenta l’opposizione alla giunta capassiana. Con più modesti mezzi, s’avvale della pubblica cartellonistica e di uno spin doctor tuttofare. Ogni mossa del Capo è mediaticamente curata, costruita e data in pasto. La retorica di regime racconta ai lettori e agli internauti , più o meno consapevoli, ciò che essi vogliono sentirsi dire proprio come accadeva agli Italiani del novantaquattro.
La sfiducia verso le istituzioni attecchisce , ormai, in ogni dove nel Bel Paese e da qualche tempo , forse fisiologicamente,sortisce i suoi effetti anche nella Piccola Svizzera .Ciò unito allo sport nazionale del qualunquismo e del disfattismo fa il resto.
Essenziale diventa la strategia dell’attacco. Poco importano i contenuti. L’importante è che s’attacchi. E’ questo da sempre l’urlo di battaglia della politica mediatica.
Quando questa dimensione della politica entra nelle assemblee elettive gli effetti sono ,però,dirompenti.
Anche la sala consiliare diventa il palcoscenico perfetto di una tragicommedia avvilente e a tratti vergognosa. Il luogo delle istituzioni viene asservito alle necessità propagandistiche. Il rispetto della sede finisce calpestato dalle urla di una claque da stadio. S’ inveisce, si urla , si sbraita, s’insulta. Muore il dibattito, il confronto è stuprato dalle urla di un comizio nella sede sbagliata.
La politica dell’assalto e dell’inciucio non conosce limiti , non conosce rispetto per gli organi della Democrazia. Con arroganza pensa di potersi servire di essi per farne ciò che vuole. Quel che conta è abbattere l’avversario.
L’ultimo stadio è l’invocazione della piazza dove tutto può risolversi  in una brodaglia indistinta di attacchi , di sfide a duello. Perché nella piazza si possono acquistare consapevolezze ma possono anche perdersene molte, perché nella piazza l’emotività  travalica , quando questa è ridotta ad arena di uno scontro sterile, ogni ragionevole e pacata esigenza di confronto. Perchè ad esso si preferisce lo scontro.
Ebbene , la domanda è : possiamo permettere ciò?
La deriva  è sotto gli occhi di chi abbia un minimo di consapevolezza storica. Basta guardare agli ultimi anni di questa Seconda Repubblica per comprendere quel che rischiamo.
Il caos. Un enorme gioco al massacro senza ritorno.
Il Berlusconino de noantri , con scarse competenze e nullo senso delle istituzioni ,rischia di trascinare San Sebastiano (e diciamolo!) , con gli strumenti che furono di Berlusconi senior ,allo scontro totale. L’obbiettivo è quello di creare terra bruciata perché anche il nostro Cavaliere in erba possa avere il suo novantaquattro.
E le regole democratiche ? L’investitura popolare? Tutte balle.
(Certo ,però, che deve essere un duro lavoro quello dello spin doctor costretto a far da balia a chi da grande vuole fare di mestiere Berlusconi. Aggiustare il tiro delle esternazioni, curare l’immagine, scrivere  dichiarazioni. Roba da duri insomma.)

Ieri ho letto che Berlusconi (quello vero) , parlando della brutale esecuzione dell’amico Gheddafi , avrebbe detto : Sic transit gloria mundi.
Interessante no?
Che abbia compiuto un atto di autoprofezia?
Se fossi un Berlusconi del domani io farei i debiti scongiuri.

P.S. Stuzzica la mia civetteria ( e non solo quella) indagare sulle origini e , se volete, i trascorsi imprenditoriali del Cavaliere di Bengodi. Così , per il gusto di verificare se tutti i Berlusconi prima della politica sono stati la stessa roba.


Scusi il lettore se insisto con la penna anche dopo il Post Scriptum.
Chi scrive si rivolge con gli ,spero simpatici ,appellativi (adottati per amore della scrittura allegra) al Consigliere Gennaro Manzo.  
Quest’ultimo avrà la certezza che mi rivolgo alla sua persona e potrà , essendovi avvezzo, adottare tutti gli strumenti che l’ordinamento nostrano gli mette a disposizione per “tutelarsi”.



Nicola Mondini

lunedì 17 ottobre 2011

Aiuto.

Nell'oscurità sono di nuovo qui. I miei tormenti rimangono gli stessi.
Nel timore di non riuscire mi perdo. Mi sotterra l'angoscia. Temo di restare solo.
Sono solo. Abbandonato dalle mie consapevolezze. Mi scopro nessuno.
Un tempo ho creduto d'essere arrivato , oggi mi scopro più che mai lontano.
Qualcuno mi salvi.
Non voglio affogare tra i timori. Nei rancori che l'animo mio nutre contro me stesso.
Ho perso le certezze. Temo il giudizio di chi mi guarda e mi pensa sereno.
Ho perso ogni serenità , forse non l' ho mai trovata. Mi sono convinto d'averla.
Ora sono nudo . Il mondo è davanti e io rifuggo la vita.
Voglio lasciare . Tutto.
Vi prego qualcuno m'aiuti.

domenica 9 ottobre 2011

A mio figlio.


Figlio mio, ama
Ama , non come tuo padre.
Ama davvero. Fatti travolgere dall’amore. Se vuoi dalla passione. Fallo.
Tuo padre ha speso la sua vita inseguendo finte priorità. Non commettere lo stesso errore.
Ho fatto ciò che il mondo ha sempre voluto che io facessi.
Segui l’istinto. Corri fino all’orlo del baratro, poi fermati. Cadi, se vuoi.
Non vivere in equilibrio tra le idee della gente. Io l’ho fatto e sono morto.
Sono morto , figlio mio, perché ho vissuto di diplomazia.
Vivi d’impeto.
Se perdi la passione perdi te stesso.
Dimenticati del tempo, dimenticati delle inutili asfissie. Dimenticati delle ansie di tua madre.
Sii sempre il meglio, il meglio di ciò che intendi essere.
Non cercare mai te stesso nel meglio degli altri.
Se trovi un eroe scansalo. Se trovi un maestro seguilo. Ti porterà per Mondi che tu non hai potuto vedere. Fa che questi ti prenda in braccio come facevo io quando tu mi arrivavi al ginocchio .
Rifuggi l’anarchia ma piega gli schemi.
Se ne senti il bisogno vai lontano.
Non perdere la vita dietro stupidi litigi. Non serve a te , fa male a chi ti ama.
Non mentire. Mai.
Nella menzogna finirai per perderti.
Cambia idea. Sempre. Non farti avvinghiare dal pregiudizio di chi spaccia per coerenza la morte del pensiero.
Se hai un debito adempilo.
Parla male di chi vuoi ma fallo dinanzi ad essi , perché questi ti vedano. Non prostituire la tua coscienza. Rendila , quando i tuoi giorni finiranno, senza lacerazioni.
Sii riconoscente.
Fai quel che devi per il tuo Paese, pretendi che gli altri facciano.
Se necessario, urla. Non essere schiavo dell’inerzia.
Leggi ma non rubare mai i pensieri di chi scrive. Li ammazzeresti. Riconoscine , invece ,la paternità.
Vivi , figlio mio.
Non sopravvivere, meglio la morte.  
Non dimenticarti mai di vivere.


mercoledì 21 settembre 2011

Referendum Elettorale, diamoci una mano. Istruzioni per l'uso.


Avviso ai lettori(mi sarebbe piaciuto scrivere avviso ai naviganti ma m’è parso poco consono).
Quello che segue non è un racconto. Non è uno dei consoni sfoghi di chi regge la penna sempre con poca maestria ma con tanta civetteria. E’ altro. Quel che è lo scoprirete tra breve.


Nelle ultime settimane solo pochi tele conduttori hanno avuto l’ardore di avvisare gli spettatori , ancora alle prese con la sbornia da rientro vacanze, che è in corso la raccolta delle firme necessarie per un certo referendum abrogativo che dovrebbe aver luogo dalle nostre parti.
Che vi sia l’interesse a che i fruitori dell’informazione del servizio pubblico sappiano il meno possibile è lapalissiano. Ed è altrettanto lapalissiano che i dignitosi risultati raggiunti nella scalata alle 500.000 firme sono il frutto di un lavoro fatto dagli Italiani di buona volontà.

Quale è il referendum in questione?
A quasi vent’anni dalla fine della Prima Repubblica come uno spettro per i potenti torna il cd. Referendum elettorale ( categoria referendaria per la verità fortemente ambigua in ragione di una molteplicità di aspetti giuridici). Una iattura per quasi ogni parte politica, un pasticciaccio che potrebbe ribaltare il tavolo del Monopoli a cui tutti stanno pacatamente giocando. Motivo per cui non poche componenti dell’opposizione dimostrano una certa inappetenza.

Come è noto il Referendum è il massimo strumento della democrazia diretta, è il temperamento che i Padri costituenti vollero inserire in Costituzione all’onnipotenza parlamentare e alla tirannia della maggioranza di turno. L’articolo settantacinquesimo della Costituzione disciplina il referendum abrogativo, il solo esplicitamente indicato dalla Carta.
Il referendum abrogativo in materia elettorale è da sempre oggetto di accesissime discussioni tra i costituzionalisti e non solo. E quello in questione è proprio un referendum elettorale.

Nella storia della nostra Repubblica i referendum elettorali hanno un ruolo fondamentale.
Sono stati negli primi anni novanta il machete che il corso (anche allora) vorticoso degli eventi ha consegnato ex abrupto nelle mani degli Italiani  che per esasperazione e straordinaria forza di volontà (anche allora) seppero approfittarne.

Nel 1991 (per la prima volta) l’On. Mario Segni fu il padre della prima grande iniziativa referendaria in materia elettorale giunta a buon fine. Sino a quel momento infatti la Corte Costituzionale nella sua valutazione sull’ammissibilità dei quesiti della consultazione s’era sempre espressa negativamente.
Ritenendo, prevalentemente, che l’abrogazione dei disposti di una legge elettorale (pur non essendo espressamente vietata in costituzione) generasse un vuoto normativo incolmabile.
Solo in quegli anni (primi anni novanta ndr) la Consulta, forse spinta dai vorticosi eventi di Tangentopoli, dal progressivo scardinamento del sistema partitico che resse la Prima Repubblica, giunse alla conclusione che i referendum elettorali fossero ammissibili nella misura in cui  l’abrogazione prodotta dagli stessi garantisse una disciplina di risulta( quello che avanzava dalla roba tolta mediante referendum  insomma) tale da regolare comunque la materia , magari anche con la reviviscenza di precedenti disposizioni. Si parlò allora di Referendum di Ritaglio. Proprio per le caratteristiche sopra esposte.

Ecco, caro lettore, oggi la storia si ripete , quasi negli stessi termini.
Il lettore arguto scuserà le elucubrazioni nemmeno troppo puntuali ma esse sono , a mio avviso, necessarie perche i più comprendano.

Quello proposto in questi mesi dai comitati promotori è il tipico referendum in materia elettorale.
Ne ha tutte le peculiarità e tutti i difetti.
Esso consta di due quesiti.
Il primo: propone l’abrogazione di TUTTE le disposizioni di modifica introdotte dal Porcellum (attuale legge elettorale) alla vecchia legge che disciplinava l’elezione alla Camera dei Deputati e al Senato della Repubblica.

Il secondo: propone l’abrogazione PARZIALE delle singole disposizioni di modifica del Mattarellum (legge elettorale introdotta nel 1993 sull’onda propulsiva dei referendum Segni di cui si è detto sopra).

Quale è il fine?
Riportare in vita ,mediante la tecnica del ritaglio, le disposizioni della precedente legge elettorale , la legge Mattarella ( dal nome del suo ispiratore ,Sergio Mattarella).


Detto ciò ,quali sono i contenuti delle due leggi?

La legge Mattarella prevede un sistema maggioritario uninominale di collegio, con turno unico per il 75% dei seggi.
Calma!! Non si faccia prendere dall’ansia Non è aramaico antico , è molto più semplice di quanto sembra.

Nel collegio elettorale(il pezzettino di territorio a cui l’elettore appartiene) è eletto il candidato che ottiene il maggior numero di preferenze. Questo sistema però vale solo per il 75% dei seggi parlamentari. I restanti seggi sono assegnati con un sistema ( detto dello scorporo) diverso tra Camera e Senato.
Al Senato i seggi restanti vanno ai migliori perdenti nei diversi collegi, cioè sono proporzionalmente ripartiti ; per le elezioni della Camera è presentata all’elettore un’altra scheda recante una lista bloccata (cioè su questa scheda non si può esprimere la preferenza) .Tra le diverse liste sono proporzionalmente attribuiti i restanti seggi.
Ecco dunque che possiamo definire il Mattarellum un sistema maggioritario con correttivo proporzionale.


La legge Calderoli (detta Porcellum dalla definizione che il suo maggiore estensore ne diede in una nota trasmissione televisiva, “questa legge è una porcata”ndr) prevede un sistema proporzionale corretto , con premio di maggioranza e lista bloccata

Il sistema proporzionale per natura favorisce le minoranze portando alla formazione di maggioranze governative che si reggono su precari equilibri dettati dalle esigenze dei piccoli partiti.
A ciò la legge Calderoli ovvia con una “correzione”, una soglia di sbarramento,  ovvero vale il principio per cui ciascuna lista deve ottenere una soglia minima di voti per accedere alle camere elettive.
Essa non consente all’elettore di esprimere alcuna preferenza, né per la Camera dei Deputati né per il Senato della Repubblica. Nessun elettore può in sostanza indicare il candidato preferito o di riferimento. Risultano eletti i candidati secondo l’ordine di lista, decisa dai partiti politici, fino alla concorrenza dei seggi.
Il Porcellum attribuisce inoltre il 55% dei seggi parlamentari alla lista o coalizione di liste che abbia vinto la consultazione (quand’anche essa abbia ottenuto una percentuale irrisoria, basta che risulti essere quella con più voti). Ciascuna coalizione deve inoltre presentare un capo della stessa, riducendo evidentemente la prerogativa del Capo dello Stato di nominare il Presidente del Consiglio.


Questi sono , in sintesi ,i due sistemi. Questa è lo schema d’azione di un referendum elettorale.

Gli istituti di democrazia diretta costituiscono, senza dubbio, uno dei mezzi  di maggiore prestigio che il nostro ordinamento preveda. Essi assumono una straordinaria forza , propulsiva e dirompente  insieme , soprattutto nei momenti in cui il legislatore campa d’inerzia. Continua a giocare al Monopoli.
Oggi come nei primi anni novanta, mentre si consuma il disfacimento della Seconda Repubblica , (diventata ,che ci piaccia o no, il ventennio berlusconiano) le carte sul tavolo si sparigliano di nuovo e la mano passa agli elettori.
Perché la Gente possa scegliere è necessario che la confusione colposa del tubo catodico si plachi.
Informare è il dovere di chi è al servizio del Popolo, qualunque forma questo servizio assuma , ma se ciò non accade è un dovere più che morale degli uomini di buona volontà fare in modo che i più sappiano per dirimere, per poter un giorno rispondere alla ragionevole domanda di chi chiederà noi dove eravamo.

Vi chiedo , senza presunzioni o pretese, di fare vostra questa battaglia per i prossimi dieci giorni.
Vi chiedo di copiare i contenuti di questo post in una vostra nota, di condividere il link a quest’articolo o di scriverne uno nuovo, sicuramente più chiaro ed esaustivo di quanto io sia riuscito ad essere.
Ve lo chiedo mentre sono seduto alla mia scrivania e scrivo perché penso che ognuno di noi sia gravato da pesanti responsabilità a cui sottrarsi diventa moralmente e socialmente impossibile.

martedì 20 settembre 2011

Nicola Mondini , poesie e racconti: Silvio senza pudore.

Nicola Mondini , poesie e racconti: Silvio senza pudore.: Facciamo un piccolo passo indietro. Eclissiamo per un momento i risvolti politici delle vicende berlusconiane. Fingiamo che Berlusconi Silvi...

Silvio senza pudore.

Facciamo un piccolo passo indietro.
Eclissiamo per un momento i risvolti politici delle vicende berlusconiane.
Fingiamo che Berlusconi Silvio sia un politico di primo piano ma non il Presidente del Consiglio.
Diamoci alla fanta-politica.

Esiste in Fantalandia un uomo ultrasettantenne , uomo pubblico, grande trascinatore di folle. Padre di cinque figli e nonno di cinque nipotini. Imprenditore affermato, a capo di migliaia di dipendenti.

Poniamo che un giorno si  scopra che questi, conosciuto e stimato da molti e (fisiologicamente) odiato da altrettanti molti , trascorra le sue notti tra avvenenti ragazzine poco più che diciottenni , si intrattenga in festini a luci rosse , adori masturbarsi mentre tre o quattro delle sue invitate si spogliano dinanzi a lui .
Poniamo che siano diffuse conversazioni private di quest’uomo (diffusione più o meno lecita) e diventi di dominio pubblico che il ricco imprenditore ama vantarsi di scoparsene otto a notte, di tenerlo sempre in tiro nonostante la veneranda età.
Poniamo ancora che alcune delle circa mille ragazze ospitate in questo grottesco harem rivelino di aver ricevuto ingenti somme in cambio di pirotecniche prestazioni sessuali.

Come può questo ricco imprenditore, stimato professionista, adulato politico ,padre e nonno ,l’indomani guardare negli occhi i propri figli poco più grandi delle quattro puttanelle che si è portato nel letto la sera prima?Come può rivolgersi ai propri dipendenti , arringare una folla senza provare vergogna o , quantomeno , arrossire in volto?

Ebbene ciò  è accaduto , non in Fantalandia , ma da noi, nel Bel Paese, negli ultimi cinque anni dell’era berlusconiana .
Senza alcun pudore Berlusconi si erge impettito come se nulla mai fosse accaduto.
Me lo chiedo da mesi…come riesce in quest’impresa sign. Presidente?
L’altro giorno ha ricevuto una delegazione estera a Palazzo Chigi, ha incontrato il Presidente Napolitano, come è riuscito a fare ciò senza morire dalla vergogna, senza nemmeno avvertire l’intimo bisogno di abbassare lo sguardo per un momento, solo un momento ? Come riesce a non sentirsi osservato ? A parlare ai suoi figli ? Come può giurare sulla loro vita che quelle nelle sue residenze non erano altro che feste eleganti?
Perché lei non arrossisce sign.Presidente?
Lei non ha sensi di colpa guardando i suoi familiari?
Da due decenni nulla la imbarazza, i troppi lifting e i troppi doppiopetto non consentono a nulla di scalfirla. Come riesce a non pensare che sia davvero troppo, per un rispettabile uomo ultrasettantenne che ha il dovere, soprattutto intimo e individuale di comportarsi dignitosamente?
Al di là di ogni risvolto politico o governativo…la sua coscienza dov’è?
Si è scopato anche quella? L’ha nascosta sotto il lettone di Putin? Nelle mutande di Emilio fede?
Dov’è , Presidente?

Non ho più nulla da dire, la mia coscienza s’è raggrinzita , la mia mente non riesce a trovare una spiegazione razionale a tutto ciò.
Non posso far altro che riportare quello che Ellekappa , in una graziosa vignetta su La Repubblica , scrive: “ Non c’è altro tempo da perdere, si tiri su gli slip e si dimetta, Presidente!”

sabato 17 settembre 2011

Il Sesso al potere.Tutto si risolve in una scopata di figa.

Gli abissi umani sono perlustrabili?  Tutti perlustrabili?
Jacques Riviere pensava che così fosse. O almeno così scrisse in un saggio su Dostoevskij.
Non mi intendo di perlustrazioni psicologiche e tantomeno spirituali, di psicologia ci capisco poco  o nulla ma quel poco di coscienza critica che la scuola pubblica m’ha dato mi consente di giungere alla conclusione che se Freud si fosse trovato davanti Silvio Berlusconi oggi la psicoanalisi sarebbe un’altra storia.

Non sono un moralista e neppure un bigotto democristiano e tantomeno uno di quelli che chiamano cattocomunisti , penso però che le ultime vicende connesse alle nostrane contingenze ci consentano di asserire che il cesso oramai straborda di merda.  Non è certo un’aulica espressione ma rende perfettamente l’idea della misura insuperabile a cui si è giunti .
Il senso dello Stato e del servizio alla Nazione è morto nelle notti di Arcore, la credibilità delle istituzioni è finita travolta dai festini di Palazzo Grazioli. Stuprata da un uomo palesemente incapace di servire il Paese per il Paese bensì evidentemente abile a servirsi del Paese per soddisfare se stesso, i suoi interessi e le , nemmeno tanto velate, pulsioni.
Gli Italiani sono stati truffati, indotti con l’inganno ad eleggere chi s’è finto statista , perchè i servi del Drago hanno nascosto ai più ciò che un tempo a pochi era noto.
Silvio Berlusconi era già nell’Aprile del 2009 un uomo malato, incapace di guidare il Paese.
Ma i Minzolini di allora si prostrarono ai piedi del Sultano , soddisfecero ogni suo volere non per amore degli ideali e del pensiero berlusconiano, beninteso, bensì per servirsi delle libagioni che sarebbero venute, perchè potessero essere foraggiati e saziati.
Ed ecco che a tre anni di distanza l’Italia dei piani alti è un paese di mantenuti. Un puttanaio a cielo aperto. Il paese ha perso ogni vergogna , ogni pudore,  persino le ipocrisie non hanno più senso, intendo quelle buone che ci servono per campare meglio.

E’la figa che conta! Quante scopate ti sei fatta con Lui o quello mantenuto da Lui.
Il faccendiere latitante si fa legislatore, predispone leggi costituzionali, consiglia incarichi, parla col Ministro.
Lui è lì a scoparsene una dopo un’altra , otto in una notte, roba da far rabbrividire le migliori porno star, tanto che gli frega. Duemila euro, il cazzo in una figa e si manda avanti il Governo.
Loro sono lì  per interesse , anche Lui è lì per quello. Così si tengono per mano , tanto sanno che “simul stabunt simul cadent”, se cade Lui cadono tutti ma se cadono loro cade anche Lui.
Dove è il privato in tutto ciò?
Berlusconi , il Berlusconi Presidente del Consiglio, usa la carica che pro tempore ricopre per servire questa “gioiosa macchina del piacere” che diventa una nuova “gioiosa macchina da guerra” ma con un carburante diverso da quello che avrebbe adottato Occhetto.
Dov’è il privato ? Lo chiedo al lettore arguto. 
Il rischio maggiore è la tenuta del Sistema Italia.
Il rischio maggiore è l’assuefazione.
Tutto è diventato una faccenda privata.
“Tutti dobbiamo ringraziare il Presidente  perché se siamo qui e mangiamo è grazie a lui” asserisce una delle Vergini. “Lui ci ha sfamati tutti”.
Solo un Paese ai limiti della dittatura può accettare una dimensione  tale del vivere associato.
Io non mangio alla mensa di Silvio e non intendo farlo. Non intendo calare le braghe e ( nel totale superamento di ogni ritegno mi si passino espressioni altrimenti non ammissibili) farmi scopare il culo perché possa avere un posto di lavoro.
Mentre voi tornavate nelle vostre case , stanchi del giorno, frustrati dal datore di lavoro , Lui era lì a gestire la cosa pubblica in mezzo alle sue sessantasette invitate a cena , a gestire gli incarichi e i favori al telefono con un faccendiere senza titoli.

Egli ha il dovere di adempiere le funzioni affidategli con DISCIPLINA  e  ONORE , ai sensi dell’art. 54 della Costituzione. Che fine fanno la Disciplina e l’Onore quando gli affari di Stato diventano vicende private , anzi privatissime e  proprio per il loro diventare privatissime ingenerano la confusione tra gestione della cosa pubblica e di quella privata?

Tutto è eccesso e  delirio. Tutto finisce in un letto, magari in quello grande col baldacchino, quello che la casta D’Addario scoprì essere un dono dell’amico Putin. Tutto si risolve in un bocchino o un’inculata. Nel bacio bavoso d’un settantacinquenne rattrappito che “a tempo perso”, come ama dire alle sue puttanelle , “fa il Presidente del Consiglio”

Lo stadio ultimo? E’ la sua apoteosi.

Dal primo passo della Deificazione di Silvio.
“Dopo aver assistito al ballo della Minetti adornata come fosse una suora, Egli prese il crocifisso che portava al collo e , dopo che la donna si fu spogliata, glielo mise tra le gambe e disse: che Iddio ti benedica”
                                     Tratto dalla testimonianza di una delle Vergini offertesi al Drago.




domenica 4 settembre 2011

Il circo è partito.


Sulla sabbia infestata d’impronte
Riposa l’ultima tenda del circo partito.

Seduto guardo
dove il circo è stato e là mi ricordo bambino
con mia madre.
Il Pagliaccio è rimasto accartocciato.
Seduto sulla parte legnosa dell’animo suo.
Nello sbuffo d’ una sigaretta corrosa
si sciolgono i pensieri
come il trucco vermiglio
che tra le lacrime segna
rivoli taglienti
nel volto del pagliaccio che si vorrebbe bambino.

Il circo è partito!

martedì 30 agosto 2011

Aiutatemi perchè io non voglio morire altrove.

Vorrei esser nato in un'Italia diversa, ma non troppo perchè si possa dire che sia comunque l'Italia.
 In un Paese insomma dove chi studia è premiato il giusto, chi lavora è retribuito il giusto, dove i vecchi hanno , oggi come domani, il diritto di riposare il giusto. Se ciò non può accadere ditemelo ora, compagni miei, perchè se così fosse , non voglio vedere un giorno piangere la madre , nella casa dove nacqui, perché mise al mondo un figlio senza futuro.

Vorrei che mia madre un giorno possa dire d’aver insegnato per i figli e le figlie del suo Paese e non per i quattro viziati che possono permettersi gli studi negli istituti privati, vorrei che mia madre non debba vivere per sempre sull’instabile filo della precarietà, vorrei che la gente capisse che lei non inculca,lei insegna e impara ogni giorno.
Vorrei che tutti potessero vederne la stanchezza quando rincasa da scuola, ascoltarne per ore i lamenti perché quello non studia o quell’altro se ne frega,vorrei che tutti aveste potuto sentirla piangere quando il papà di uno dei suoi bimbi è morto.
Vorrei che qualcuno di voi l’avesse accompagnata quel giorno nella desolata  periferia romana, con la sua y10 vecchio modello colma di carta igienica, perche a scuola non ce ne era e in qualche modo bisognava pur rimediare.


Non voglio che la mia generazione paghi il prezzo d’un passato che non c’appartiene. Non pagheremo noi gli errori di chi si é finto eroe , s’è fatto santo e ha ammazzato il futuro.
Compagni miei se ciò non potrà essere, che io possa morire altrove! Non qui, non in questa terra che non è la mia.

mercoledì 17 agosto 2011

Notte d'Agosto


Il Seno materno della notte d’Agosto
bagna d’ambrosia la carne.
E si consolano le membra
che non sanno più pace.

Riflesso dall’ultima voce della strada
torna indietro il mio pensiero.
Stuprato dai quattro passanti.


martedì 16 agosto 2011

Una fottuta storia d'amore. (parte1)


Quei mocciosi un giorno o l’altro l’avrebbero condotta al suicidio.
-Pezzi di merda, fottuti pezzi di merda!- pensava Margaret tornado da scuola.
I capelli continuavano a cadere, incessantemente ,impietosamente.
La sua vanità era andata a farsi benedire da qualche anno , da quando Paolo l’aveva lasciata. Abbandonata allo sfigato tavolo d’una finta trattoria , in mezzo ai quattro culi delle cameriere . Senza neppure pagare il conto.
L’aveva lasciata lì. Con le mani appicciacate e unte. Dopo essersela scopata sopra e sotto tutto il pomeriggio. Neppure il tempo d’un improperio. Neppure l’istante d’un maledetto vaffanculo.
S’era trovata sola.
 Infondo lo era sempre stata. Tutta la vita sola. Tutto il mondo intorno e lei a guardarlo, da sola. Ma le piaceva.
Il giorno che si scoprì incinta fu il più brutto della sua vita. Gaetano e Marco, due gemelli.
S’era trovata ad amarli, non sapeva perché , non sapeva come.
Dopo tutto s’era resa conto dell’impossibilità di non amarli, glieli aveva messi in pancia quel pezzo di merda di Paolo, col tempo però aveva finito col dimenticare quell’inconveniente. Nei primi tempi della separazione c’aveva pensato.
-E se li ammazzassi?, sarebbero più contenti tutti… un colpo a loro e poi l’ultimo a me , definitivo, la fine , bum, bum , bum!-
- E se poi non muoio? Vivrei coi sensi di colpa dentro una cella chissà dove-
Poi un giorno è cambiato tutto. Grazie a Gaetano.
Quel bimbo era incredibilmente strano. Stava seduto , per ore , a leggere, a rovinarsi gli occhi. Aveva una miopia tremenda già a tre anni.  Con Paolo parlavano tanto di Gaetano. Paolo diceva che sarebbe diventato gay. Ma Paolo era un maschilista scopatore.
Gli amici di lui raccontavano cose incredibili, spesso a Margaret veniva la nausea a pensare che era stata anche lei una puledra da cavalcare, una delle tante fighe che Paolo aveva sfondato. Così lui le chiamava , fighe da sfondare. E Margaret lo sapeva.
Da quando s’erano conosciuti però , lui sembrava cambiato. Sembrava appunto.
Gli amici di Pà lo vedevano diverso. Lui però in quelle schifose mutande attillate era rimasto sempre lo stesso. Quel fottuto arnese lo aveva reso schiavo per una vita.
Tant’è che dopo il matrimonio Margaret lo portò da un sessuologo.  Lui però era rimasto il bagnino della Versilia, dove se ne scopava una a notte.
Ergo non poteva sopportare le maniere gentili di Gaetano.
Un giorno lo aveva piazzato davanti a un film porno. Gae aveva solo dieci anni. Nella sua perversione voleva che quel bimbo ,solo un po’ introverso , dimostrasse la sua mascolinità. Per fortuna arrivò Margaret. La fine della loro storia era iniziata lì.


Il pezzo era da consegnare a mezzo giorno.
-E’ l’una  passata, cazzo!-
-Pezzi di merda, fottuti pezzi di merda!- da quando gli avevano affidato quell’inutile rubrica su quell’inutile settimanale per donne incinte stava uscendo pazzo. Era stato un incredibile salto di qualità. Fino a qualche giorno prima non aveva curato che la lista delle programmazioni televisive di un quotidiano del centr’Italia.
Paolo dopo aver fatto per anni il bell’imbusto a pagamento sulle spiagge della Toscana aveva messo la testa a posto e il pisello stretto tra le gambe dopo essersi fidanzato con una ragazza romana , una laureata in scienze dell’educazione , una maestra insomma.
Nel giro di qualche anno aveva preso il tesserino di giornalista e aveva iniziato a scrivere. Non se la cavava male, la scrittura era serrata, fitta , stringata ma armoniosa.
Come i suoi pensieri, lui diceva.
Un autore televisivo l’aveva notato , lo mandò a chiamare.
Iniziò a scrivere battute per copioni comici di un programma della tv nazionale.
 Un lavoro massacrante. Per vero il primo di una vita passata in riva al mare da maggio a settembre e d’inverno a fare il commesso da Gucci. Ce lo aveva piazzato il padre , vecchie conoscenze, una vita di botte di culo.
Poi era venuta Margaret , poi i figli, poi la separazione. E poiché le disgrazie non vengono mai da sole . Sua moglie s’era portata via oltre ai figli e un buon assegno mensile , ogni ispirazione.
L’ispirazione faticava a tornare in quella stanza di tre metri per due con cucina , tavolo rosicchiato dalle tarme , un divano letto e un cesso con  lavandino nell’angolo. Le pareti erano umide. Un triste residence sulla Tiburtina.
Settanta miniappartamenti tutti identici, duecento euro al mese acqua e luce compresi. Occupati per più della metà da padri separati, uomini falliti consegnati da un momento all’altro a una esistenza schifosa. Condannati a lavorare per mantenere una moglie e qualche moccioso cagasotto.
I soldi che guadagnava con la rivista per donne incinte se ne andavano tra affitto , assegno e le mazzette che ficcava nelle mutande delle ragazzine che di notte si portava nel lerciume della sua stanza.
A trent’anni s’era fumato la vita , i soldi, l’amore. Gli rimanevano Gaetano e Marco, forse solo Marco. Perché Gaetano lo odiava.
Quel gay di merda !gli veniva da urlare quando era ubriaco, dopo aver ficcato la lingua che sapeva d’alcool nella bocca dell’ultima mignotta.
Dopo Margaret era tornato alla vita della Versilia, alla vita di dieci anni prima , quella della sabbia tra i piedi, i bicchieri sempre pieni, della pelle tirata e scura, della carne fresca , del macello delle notti passate tra birre , vodka e sborrate.
Poi venivano i giorni di vuoto.
Quando si faceva prendere dalla gravità, cadendo sul divano unto del miniappartamento.
Assonnato, pensieroso, sconfitto.
Paolo non era un uomo stupido, era diventato schiavo dei suoi dolori , dei ricordi , delle ferite che portava sotto la pelle.
Ripensava alla sera in  cui s’era trascinato in una schifosa trattoria , aveva chiamato Margaret, voleva parlarle. Tra loro era finita da qualche mese  anzi lui voleva che fosse finita , senza decidere se ne era andato, senza dire che l’aveva amata o che mai l’aveva fatto. Lei gli aveva dato del tempo  per tornare quello del fidanzamento. Ma in pochi mesi aveva bruciato mezza vita dietro i culi di quattro brasiliane, nel letto con quelle minorenni sballate che incontrava ,seduceva,ammazzava nelle sue serate.
Aveva mandato tutto a fanculo quella sera. Il giorno dopo la vita  mandò a fanculo lui.
Con la faccia immersa nel ruvido della tappezzeria , con l’odore della polvere nelle narici, con il telecomando sotto la pancia a dare fastidio ,pensava a quando la vita l’aveva cambiato . A quando , come diceva lui, gli aveva messo il cazzo tra le mani dicendo fanne un capolavoro.
Paolo veniva dalla provincia ,da un pesello sul mare della Toscana.
Da piccolo portava gli occhiali, si era mantenuto magro ed esile fino ai diciassette anni , assomigliava molto a quel figlio che avrebbe odiato.
Una sera d’agosto era sceso  , come era solito fare  d’estate , per sedersi sul molo e guardare il mare.  Sul pontile i quattro ventenni sfigati di Sant’Erminio lo avevano strattonato e sollevato di peso. Lo avevano cacciato dietro uno scoglio.
L’insultarono, gli sputarono addosso. Lo chiamavano verginella. E uno dopo l’altro abusarono di lui. Tornò a casa sanguinante  ma tacque.
Passò la notte con il sapore del sangue nella bocca. Con la spina dorsale spezzata. Con il culo spaccato.
Un mese dopo scappò da Sant’Erminio.
Sarebbe tornato qualche anno dopo , con tre o quattro vite rovinate sulle spalle.



venerdì 15 luglio 2011

Harry Potter, storia di vite.


A Enzo che per primo mi ha fatto innamorare di Harry.

Avevo dieci anni ed ero al primo anno delle scuole medie.
Mio padre gestiva una cartolibreria in un paese qui vicino. Mia madre era fresca di concorso, avrebbe iniziato di li a poco ad insegnare.
A Novembre del duemilauno mi regalarono un libro, anzi me ne regalarono due copie , una l’ho riciclata l’altra la conservo ancora nello stesso mobile dove per la prima volta la riposi ,lontano dagli altri libri, forse per rispetto, forse per i tanti ricordi o forse perché una logica imperscrutabile così ha deciso.
Harry Potter e la pietra filosofale. Di J.K. Rowling. Una mezza scrittrice britannica.
La copertina non prometteva bene. I colori facevano abbastanza schifo. Il titolo era però allettante.
Vicende di un maghetto , cianciavano i giornalisti (quelli sfigati , che mandano in giro per il mondo alla ricerca delle notizie strambe, quelli che ti chiedi se abbiano davvero studiato anni per narrare le vicissitudini dell’ultimo mangiafuoco thailandese) alla tv.
Sia chiaro , non ho mai apprezzato particolarmente la scrittura del romanzo. Ho appassionatamente letto i primi due volumi e l’ultimo della saga, per pigrizia, per snobismo, per cocciutaggine.
Ho però amato la filmografia. Non sono di quelli che spasmodicamente e minuziosamente operano come eccelsi filologi alla ricerca delle discrasie imperdonabili tra la pellicola e la carta.
Anzi sappia il lettore che quella categoria di “lettoruncoli cinefili”mi è terribilmente invisa.
Insomma il giorno di San Nicola del duemilauno fu proiettato in Italia il primo di otto film.

Era Dicembre e faceva tanto tanto freddo ,uscendo da Mc Donald’s il tepore che ci avvolgeva si dissolse in un istante. Sentivo , come sempre quando vado via da uno di quei fastfood , le mai appiccicate, in una reggevo un omuncolo uscito dalle allegre scatole riempite di cibo per bambini( almeno per tale lo spacciano). Papà afferrò l’altra mano e ci dirigemmo in una sala cinematografica nel centro di Napoli.
Era la seconda volta che andavo al cinema.
La prima era stata per vedere i Flinstone. Persino Titanic lo vidi in cassetta.
Ci andavamo poco allora. Forse ero ancora piccolo. Forse il cinema per chi vive in provincia è sempre stato una roba per coppiette e per intellettuali. Le due categorie generano uno strano equilibrio o , se volete,un’eccellente compensazione.
Insomma Harry fu il primo film della consapevolezza che guardai seduto nell’enorme poltrona rossa di una sala cinematografica.
Allora il biglietto costava meno dei popcorn salatissimi che si comprano a film iniziato e a  luci spente. Mio padre talora lo ricorda e sembra emozionarsi. Sarà l’età che avanza, sarà la malinconia per quegli anni già lontani.
La sala era tutta intrisa di fuliggine , quella scura , impenetrabile, che appare su ogni oggetto quando le luci si spengono e il film inizia.
Accanto a me c’era mio padre e una manciata di poltrone dopo sedevano Enzo e i due figli; quella sera non avevamo prenotato i biglietti, i posti erano in gran parte occupati e sedemmo divisi. Quel film se fosse stato per mio padre non l’avremmo neppure visto. Fu per la caparbietà di Enzo che entrammo nel teatro , ci vollero mille pacche sulle spalle per condurre papà all’interno.
 Ancora oggi quando ripenso ad Enzo lo vedo seduto in quella poltrona vermiglia , quasi sprofondava nel morbido della tappezzeria. Era di corporatura esile , il suo fisico era tutto un susseguirsi di nodi e spigoli.
Ancora oggi prego Dio di proteggere la sua anima, perché era un uomo buono. Lavorava dalla mattina alla sera per racimolare qualche soldo che non bastava mai. Con lui , infatti, vivevano due nipoti, figli della sorella di Marisa, sua moglie. I loro genitori morirono sotto le macerie  nel terribile terremoto dell’Irpinia. Enzo decise di prenderli con sè.
La storia di quell’uomo e della sua famiglia (fu Enzo a  regalarmi il primo libro della Rowling )mi era parsa tanto simile alla storia di Harry. Come Petunia e Vernon Dursley , lui e Marisa avevano preso con sé i nipoti dopo la morte dei genitori, loro però li avevano accolti con amore e nessuno dei due era mai stato costretto in un angusto sottoscala. Tra l’altro la casa di Enzo era troppo piccola per avere scale e annessi sottoscala, era la casa di un modesto idraulico che con i suoi guadagni sfamava cinque persone.
Forse queste due storie hanno davvero poco in comune , forse invece sono legate da vincoli ben più profondi di quelli che la mia mente riesce a scorgere, forse è il mio animo che questi legami va costruendoli.
Enzo è morto una decina di  mesi dopo quel sei dicembre. Aveva un tumore. Iniziò a dimagrire ogni giorno di più. Andai con mamma a fargli visita  negli ultimi tempi della sua agonia. Quando entrai nella camera da letto  quasi non lo riconobbi, era un mucchio d’ossa, manteneva però lo sguardo sereno e un po’ sornione. Mi prese la mano. Io non avevo il coraggio di stringerla. Mi sembrava tornato bambino. Morì pochi mesi dopo.

Ieri sono entrato al cinema. Mi sono seduto in una poltrona vermiglia.
Ho assistito per l’ultima volta  alle vicende di Harry, Ermione e Ron ; la McGrunnit , Piton , Voldemort e Silente;ho rivisto  i Malfoy , Bellatrix …  Hogwarts  e il binario 9 e 3\4.
Dieci anni fa , per la prima volta , vidi proiettato sullo schermo di un cinema napoletano , l’Hogwatrs Express, sedevo in una poltrona vermiglia , affianco a me c’era mio padre e , qualche seduta dopo, c’era Enzo con alcune  bibite tra le mani e con gli occhi fissi, forse più dei miei, ad ammirare la magia di Harry.