domenica 9 dicembre 2012

L'eterna Seconda Repubblica.

La mia generazione è nata tra la Prima e la Seconda Repubblica , in un Paese che di li a poco si sarebbe scoperto berlusconiano ante litteram. È cresciuta nel tempo dell'uomo solo al comando e del leaderismo all'ennesima potenza. Ha visto la gloria e l'apogeo del Re nudo.

Quando, un'anno fa , il quarto non-governo del Cavaliere crollò inesorabilmente nessuno avrebbe creduto che in meno di dodici mesi l'anziano professore in loden, con così poco charme e appeal politico, avrebbe ricondotto il Paese sulla via dello spessore internazionale. Non lo avrebbe creduto neppure la mia generazione che con diffidenza (crescente, bisogna dirlo) ha guardato all'esperimento tecnico.
Chi ha un minimo di dimestichezza con questa materia sa che l'esecutivo Monti non è certo il primo "Governo del Presidente" ma è sicuramente uno dei più anomali per le contingenze in cui è maturato e per il carattere tutto suo proprio con cui si è imposto nella comunità internazionale.

 Ricordo come fosse ieri quella sera di Novembre di un anno fa quando tra mille feste di Piazza Berlusconi salì al Quirinale per rassegnare le dimissioni a pochi giorni dalla nomina a Senatore a vita di Mario Monti. Allora tutto ci pareva irrecuperabile : la Repubblica e le sue più alte istituzioni, schiacciate dal giogo di un potere perverso e malato; la politica smarrita, inaffidabile, schifosa; gli Italiani , persi nella convinzione di un Paese incancrenito.
Eppure l'uscita di scena del Presidente imprenditore e la contestuale comparsa del Professore ridavano speranza.
In quei giorni insomma qualcosa lasciava ben sperare, nessuno certo s'illudeva che fosse possibile tornare all'Italia del boom e della spesa facile ma quell'aurea normalitas ( passatemi la cacofonia) ricaricava il cuore ancor prima che la mente.
Il terzo governo tecnico della Seconda Repubblica è entrato così nella coscienza civile di questa generazione poco per volta, senza strappi e senza sussulti, con il marchio della sobrietà. Senza effetti pirotecnici e colpi di varietà.Con un profumo di strana normalità.


Ecco perchè agli Italiani di buona volontà il colpo di coda di questa settimana è parso inaccettabile e vile. Codardo e colposo nella sua efferata violenza politica.
Nessuno lo meritava.
In quest'anno di sacrifici il nostro Popolo( quanto ci è mancata questa espressione, per troppo tempo siamo diventati solo elettori) ha riscoperto la responsabilità e il servizio alla collettività nella sua dimensione più alta.
In questi mesi siamo rientrati nelle nostre case con la consapevolezza di dover sacrificare le ragioni di una vita agiata per contribuire tutti, secondo le proprie possibilità, al sostegno materiale ed economico della Nazione. Che la nostra Carta traduce in sviluppo spirituale e a cui si rimandano gli sforzi di ciascun cittadino.
Nessuno , beninteso, può oggi ritenere non perfettibile questa esperienza di Governo , su essa la Storia emetterà la sua sentenza e ognuno puó avanzare le proprie perplessità ; ma ad essa si deve , senza dubbio, il merito d'aver restituito all'Italia e agli Italiani la speranza di un Paese normale, in cui i governanti siano immuni da una sete di potere vuota e spocchiosa, a tratti comica se non grottesca che non rende giustizia ai valori di unità che il tempo passato ci ha consegnato.

Non lo meritano i giovani della mia generazione e di quelle che verranno,le donne e gli uomini che ogni mattina andando a lavoro hanno cercato le parole per spiegare ai propri figli che le esigenze erano cambiate;
non lo merita chi un lavoro non lo ha o non lo ha più, chi ha un'idea diversa della Politica ma ha accettato di collaborare con lealtà.

 Non lo merita l'Italia che ha creduto nel cambiamento perchè se domani , o tra un mese, questo colpo di mano ci porterà lontani dalle poche sicurezze che abbiamo raggiunto allora nessuna ragione politica sarà sufficiente. Quel giorno dovranno restituire ai padri le notti insonni e alle madri il pianto dei propri figli in cerca di un lavoro, a me e alla mia generazione dovranno ridare il sogno di un Paese normale che avevamo iniziato a costruire

lunedì 3 dicembre 2012

L'isola dell'amore.

Ho visto volteggiare oltre l'aurora il ristoro di chi cerca la pace,
la mano di mia madre tra i quattro abbracci della cenere rovente,
il bacio di mio padre sulla fronte sconosciuta.

Ho visto l'amore.
Per le strade di notte,
tra i cassonetti sulla spiaggia deserta:
l'amante rubava all'amata l'ultimo sussulto nel petto.

Come un barbone ramingo ho frugato nel mio stivale in cerca di un soldo
e dal venditore di sogni ho comprato una manciata di carri volanti
che trasportano uomini e donne verso lidi lontani
affollati da fiori sbocciati nei cuori tramortiti,
imbevuti di delusioni vetuste.

Passeggiando tra essi ho scoperto che
il dolore genera amore.

sabato 20 ottobre 2012

Blackout.

E' disperato l'urlo di chi non puo' più scrivere.Perchè muoiono le storie e con esse le parole.
Nulla affiora in superficie e le mani sono ferme.Non trovo più nulla da raccontare.
La penna è impotente e io con lei.
Ed è terribile.

lunedì 17 settembre 2012

La Marijuana ci salverà tutti !


Per la rubrica “Opinioni in libertà” pubblico questo brano che non ha nulla a che fare con il tenore solito del mio noiosissimo blog.
Qualche ora fa vagavo su Twitter  leggendo i cinguettii degli internauti (più o meno patetici) su argomenti disparatissimi (più o meno rilevanti) , quando mi imbatto nel seguente tweet:

#Cannabis Italia da record! Sapevi che secondo l'Onu il 14,6% degli Italiani fuma spinelli? Ohps...

Ecco l’internauta in questione è Vauro, celebre vignettista  italiano, notissimo per il pungente sarcasmo. Ora sarcasmo a parte la questione è di quelle rilevanti , seguitemi bene.

Il dato riportato da Vauro non appartiene alla categoria delle notizie strampalate pubblicate dalla Settimana Enigmistica ma salta fuori da uno studio, oculatamente sussurrato a labbra semichiuse dalle nostre parti, condotto nientepopodimenochè dall’Organizzazione delle Nazioni Unite.
Si tratta del “World Drug Report 2012” ,pubblicato lo scorso giugno, che in cento-pagine-cento di ricerche e grafici dipinge la situazione mondiale in materia di consumo di droghe (genericamente intese) con molteplici capitoli dedicati al consumo della amatissima cannabis.
Salta fuori che il Bel Paese , una nazione di santi (e che santi) , navigatori e mercanti è il primo consumatore occidentale di “cannabis herb”, di quella che familiarmente\affettuosamente chiamiamo marijuana.
Il 14,6% degli Italiani (di età compresa tra i 15 e 65 anni)consumano erba.
Insomma siamo i primi, affiancati dalla simpatica Nuova Zelanda che in ogni caso non supera il primato italiano , mantenendo la medesima percentuale.

Ora io intendo che l’Italia sia prima per abilità culinaria, rimanga insuperata nelle strampalate classifiche riguardanti la felicità , l’abilità amatoria e poche corbellerie simili ma , buon dio!, gli Italiani amanti dello spinello a tal punto no!

E i Paesi Bassi? L’Onu ha dimenticato la sempre sorridente (chissà perché) regina Beatrice?
Non proprio.
Ho scoperto , con mia sorpresa, che da quelle parti il consumo autoctono (degli Olandesi) è notevolmente calato.
Insomma qualcosa non quadra decisamente.
Il sottoscritto non intende addentrarsi nella noiosissima querelle cannabis si- cannabis no, sono tra l’altro deficiente per molti aspetti della materia , non ho specifiche competenze mediche ma un’idea me la sono fatta.

In Olanda accade quanto segue:
è adottato il regime della “Tolleranza controllata” assumendo come fondamento giuridico la distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, le prime sono , giustamente, strettamente e severamente , combattute ; le seconde sono tollerate con specifiche restrizioni.
Insomma è ad esempio consentita la vendita di quantità non superiori ai 5 g di erba per persona al giorno in ognuno dei cosiddetti coffe shop autorizzati , è consentita la coltivazione personale che non superi  le tre unità ma è punito (non sempre penalmente) il consumo di droghe pesanti.
Mediante questa politica l’Olanda assicura al 90% dei tossico dipendenti (e dico novanta-novanta!) assistenza, reinserimento sociale,disintossicazione e riabilitazione psico-fisica proprio in ragione della maggiore richiesta di assistenza ottenuta grazie a questa “soft policy”.
Insomma con la distinzione di cui sopra (droghe leggere-droghe pesanti ndr.)si evita che i consumatori di droghe leggere entrino in contatto con i consumatori di droghe pesanti e che questi ultimi siano assistiti e spontaneamente richiedano assistenza.
E udite udite,  il consumo di cannabis in Olanda è pari alla metà di quello statunitense ,  italiano o nigeriano. I centri autorizzati di vendita si sono ridotti in quindici anni del 30% e le politiche di reinserimento sociale sono tra le migliori al mondo (in Italia questo lavoraccio è per la gran parte svolto dai centri di santa romana chiesa con tutti i risvolti , positivi e negativi , del caso).

Il famoso lettore arguto dirà: E la salute?
Nessuno studio ( n e s s u n o!) ha attestato che gli effetti della cannabis siano peggiori di quelli prodotti dal tabacco. Eppure quest’ultimo è venduto e svenduto in tutte le salse dalle nostre parti.
Una commissione sanitaria ( istituita da Francia, Germania, Olanda e Belgio) ha evidenziato che molte conclusioni politiche non sono supportate da fondamenti scientifici e sono frutto di convincimenti spesso errati.
Ma il dato più stuzzicante è sicuramente il seguente :

“Rapporto del Senate Special Committee on illegal drugs del Parlamento Canadese”
Allo stato dei fatti la ricerca ci dice che per la grande maggioranza dei consumatori ricreazionali la canapa non presenta conseguenze dannose per la salute fisica, psicologica e sociale, sia a breve che a lungo termine. Il che non significa, precisa il rapporto, che non esista un numero seppur limitato di consumatori “pesanti” che possono avere conseguenze negative (come malattie respiratorie, e/o difetti nella concentrazione e nella memoria tali da compromettere l’inserimento sociale)

Orbene i conti non tornano.
 Va bene che abbiamo una tradizione da bacchettoni da onorare, va bene che il nostro è il Paese del “conformismo di Stato”, del cattolicesimo di facciata, del buon nome di famiglia, dello scandalo all’ordine del giorno, dei panni sporchi (quanti ne vuoi) ma lavateli in casa, ma abbiamo pure un primato da onorare! Siamo i primi consumatori di spinelli al mondo, evvivaddio! , onoriamolo!

Sono nato progressista e spero di morire progressista e da sempre ritengo che questo come altri appartenga alla famiglia dei tabù all’italiana ( e nel caso di specie non solo all’italiana) nella quale rientrano in ordine sparso il divorzio, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, le cellule staminali per tacere d’altro. Ma mi pare che i tempi siano maturi, che la storia degli ultimi decenni ci abbia consegnato notevoli e mutevoli esperienze dialettiche capaci di condurci a grandi cambiamenti (il divorzio è uno di questi , il fervente interesse alle unioni omosessuali è una testimonianza ulteriore). Ebbene il dato al quale faccio riferimento sin dal principio non può essere taciuto  o seppellito da una risata. Insomma la questione quantomeno si pone.
E non venga il solito lettore arguto a dire che i problemi sono altri : la crisi e lo spread e i posti di lavoro e la scuola  ecc ecc. I problemi sono quelli che l’opinione pubblica di un Paese pone , e questa “questione “ è posta dalla pubblica opinione, battezzata dai dati e cresimata dal sottoscritto (che non conta ma è un fatto).

Dimenticavo:
in Olanda ,si sa ,sono ingenui e nessuno mai ha pensato di tassare la vendita della marijuana.
Beata scelleratezza, i nord europei dovrebbero farsi un giro qui da noi.
Ora io ritengo ragionevole che quel 14,6% di Italiani(che , intendiamoci, rappresentano un dato di media, ci sono quindi picchi ben superiori) oberato da mille obblighi nei confronti di uno Stato che è socio al 50% di ogni contribuente(basta dare uno sguardo ad un altro primato: la pressione fiscale) non riterrebbe abominevole una piccola accisa sulla vendita della cannabis , eventualmente, legale.
Insomma  rispetto alla prospettiva di un approvvigionamento oggi legato a doppio filo alla criminalità e quindi alle terribili conseguenze (anche solo di incolumità fisica) che spesso ne derivano sarebbe ben più vantaggioso ,per l’affezionato consumatore italiano, pagare quel piccolo sovrappiù destinate alle casse dello Stato.
Ci pensi SuperMario , anche se temo che al momento sia preso da diverse preoccupazioni. Ci pensino i progressisti e i finti progressisti .
E ci pensino i tecnici del Tesoro.
Ci pensino bene e si facciano due conti. Forse forse risparmieremmo qualche  spending review  di troppo, qualche punto d’Iva e perché no un giorno potremmo dire che il debito pubblico italiano venne risanato grazie all’instancabile contributo dei consumatori di erba.

N.B. Articolo di opinione, contiene frasi e riferimenti ironici, sconsigliato ai lettori suscettibili. Non ha , come ogni cosa qui dentro, valore scientifico. I dati sono tutti consultabili su Internet.


giovedì 13 settembre 2012

Hank. La fine.

Qui trovate i primi due racconti :  http://nicolamondini.blogspot.it/2012_05_01_archive.html


 A Hank,
ai suoi principi,
a chi li ha sollecitati.


Sua madre entrò nella stanza prima che arrivassero tutti. Sgattaiolò oltre la soglia della porta e iniziò ad aggirarsi tra i due letti , le pile di libri e i dischi sparsi sul pavimento grigio. Tutto puzzava terribilmente di polvere e alcool. Sulla scrivania  che assomigliava più a un tavolo di fortuna pescato chissà dove non c’era che qualche penna e il pc portatile.
Sotto un pacchetto di sigarette semivuoto Hank aveva abbandonato un piccolo quaderno .
Furtiva lo infilò in borsa pochi secondi prima che suonassero alla porta.

***

Non potevo immaginare che li avrei visti per l’ultima volta quel giorno.
La casa era stata inondata dai parenti, una certa zia siciliana ultraottantenne ci aveva raggiunto. Aveva organizzato tutto mio padre, in fondo quella era stata la sua festa di laurea, non certo la mia. Avevo poco da festeggiare ma quel giorno era finita.
Li mandai a fare in culo la mattina dopo, portai via quasi tutto, sul tavolo della cucina lasciai il mio libretto universitario e un biglietto scritto a matita.

Grazie dei soldi spesi ma servirà più a voi. Con affetto Hank.

Quando raggiunsi la macchina trovai Francesca ad aspettarmi vicino alla portiera destra.
Appena la vidi compresi che sarebbe stato difficile convincerla a rimanere lì, da sola, in quel paese di provincia.
Io e Francesca ci eravamo fidanzati qualche mese dopo la sigaretta rubata. I miei non lo avevano mai saputo, pochi scoprirono la nostra relazione e io ne fui  contento.
Insomma quella mattina lei decise di partire con me .
Non so come i miei genitori reagirono alla mia scomparsa improvvisa, talvolta ho temuto che mia madre non avesse retto e si fosse ammazza, per quel che riguarda mio padre ero sicuro che purtroppo avrebbe attutito il colpo e in qualche modo sarebbe andato avanti.

***

Arrivammo a Milano dopo esserci fermati a metà strada, non avevo considerato che una vecchia Panda difficilmente avrebbe retto i chilometri che ci separavano dall’estremo nord del paese. Rimanemmo bloccati non lontano da Firenze, nel mezzo di una strada tra i campi.
A fatica conducemmo l’auto sul margine destro  per avere un riparo durante la notte. Quella fu l’occasione per tornare a fare l’amore con Francesca. Facemmo l’amore come mai prima era accaduto.
Non dormii quella notte. Vedevo Francesca , i campi , la strada deserta il cielo pieno di nuvole e vedevo la provincia che avevo abbandonato, ed ero felice ed ero triste insieme. Avevo consegnato a mio padre quello che aveva sempre voluto , la sua maledettissima laurea.
Ci affidammo all’autostop per arrivare a Santa Maria Novella per prendere il primo treno diretto a Milano.
Fu in quel treno che iniziai a scrivere questo diario.
Avevo agguantato questo quaderno rosso un istante prima di chiudere la porta di casa, lo tenevo conservato sulla scrivania della mia camera dal quarto ginnasio. Annotavo con perizia straordinaria alcune frasi delle canzoni che invadevano quella stanza quando restavo solo con la mia chitarra.
Decisi in quel treno che sarebbe stato il mio confidente almeno nei primi tempi della vita nuova.

 ***

Niente è come pensavo che fosse, tutto tradisce le mie aspettative anche Francesca, anche la chitarra versa in condizioni pietose. Tutto congiura. Ho quasi finito ogni risparmio e di lavoro neppure l’ombra.
Stamattina Francesca mi ha chiamato in cucina mentre prendevo il mio caffè davanti alla pagina degli annunci.
-Non possiamo campare così-
-Così come?-
-Come due esiliati-
-Non mi sento in esilio-
-Lo sei, sei un uomo senza prospettive Hank ,non hai più nulla, non hai una casa , questa non lo è e lo sai, avevi dei sogni e stanno morendo, hai quasi trent’anni e gli stessi rimorsi di quando ti ho conosciuto, non sai cosa vuoi da te , non lo hai mai saputo, combatti contro tutti ma non hai altri nemici che te stesso, io ti amo ma non basta-
-Perché mi hai seguito?-
-Non lo so più –
-E questi mesi insieme?-
-Non sono esistiti-
-Perché non vai via?-
-Non ho il coraggio-
-Mi fai schifo-
-Anche a te è mancato il coraggio-
-Ma non ho rimpianti-
-Si, li chiami illusioni-
-Vai via-
-Perché mi temi?-
-Vai via-
-Perché non ami più niente?-
-Vai via-
-Non ami più niente Hank-
Sono solo.

***

A trent’anni non ho nulla tra le mani.
Nulla che non appartenga alla famiglia delle illusioni, nulla che non avessi tra le mani ai tempi del liceo, nulla. Stamattina la sveglia è suonata alla solita ora,  suona alla solita ora da circa dieci anni o forse più.
Da un anno Vivo a Roma , in un appartamento a piano rialzato con altri due trentenni, Mario e Luca.
Non parlo con nessuno dei due , fanno troppe domande e Luca mi ricorda troppo mio padre.
Ho un impiego stabile da tre mesi: cuoco al McDonald’s  mentre  di giorno do ripetizioni di economia e diritto a prezzi stracciati.
Ho spedito circa duecento curricula, sostenuto una ventina di colloqui, dato via il culo tre o quattro volte per pagare l’affitto. I più attempati pagano meglio e s’accontentano di poco, così io mi faccio schifo di meno ed estinguo prima i miei debiti.
Ho fatto colazione . Caffè e tiramisù dell’esselunga. Ieri Mario ha festeggiato il suo compleanno, ha bussato alla porta della mia camera ed è entrato senza attendere una risposta , lo ho accolto nudo e con una canna nella mano destra , gli ho piantato il sinistro sul naso poi gli ho sottratto il tiramisù. Era entrato per offrirmene una fetta.
 Ho preso posto sul divano in cucina , ho controllato la posta e ho iniziato ad aspettare.
Aspetto ogni giorno dalle nove a l’una. Aspetto una telefonata, spero che qualcuno abbia letto il mio curriculum e intanto penso. Aspetto da sempre.
Trascorro le mie giornate aspettando.


***

Ho lasciato l’ultimo cliente sulla soglia della porta, ha pagato bene , almeno lui, almeno oggi.
L’ho conosciuto due mesi  fa in una chat erotica, dice di essere un imprenditore ma a me non interessa, l’importante è che paghi. Dice d’avermi trovato terribilmente dimagrito, lo sono.
Ho perso quindici chili, mi guardo allo specchio e posso contare le costole una ad una. Mi faccio schifo.
Ho la pelle del volto quasi giallastra e delle macchie sulla schiena ma quelle le nascondo con i cerotti, spero non si espandano, potrebbe essere la fine. Nessuno scoperebbe più.
Ieri ho venduto la chitarra, la collezione di dischi e una vecchia fotocamera. Ho conservato solo qualche vinile che mi aveva regalato Francesca. Ho pagato solo un terzo del mio debito.
So che mi riempiranno di botte.
La porta del bagno è divelta e una strana aria fresca passa attraverso la finestra, è quasi primavera ma ho un freddo terribile.
Mi sdraio sul tappeto davanti al lavandino e poggio la guancia sulla superficie gelida, spero di svegliarmi, sto cercando la mia strada da dieci anni e più ma temo di essermi perso, non ho più madre,non ho più vita mi è rimasto questo stupido quaderno e le mie dosi. Ma neppure tante.
Allungo il braccio verso il muro e agguanto una busta nera , il mio polso è quasi violaceo e la parte dal gomito in su sembra tumefatta. Ritiro il braccio, sono stanco, ho bisogno di farmi.
Mi accovaccio appoggiando la schiena al muro umido , tendo le gambe e sento l’ago penetrarmi nella carne.
E’ fatta. E’ finito. E’finito proprio tutto.
Mi alzo ma non riesco a reggermi in piedi. Cerco la chitarra. Io non ho più una chitarra. Dove sono i miei dischi? Li hai venduti Hank, non hai più i tuoi dischi. E il mio passato , hai venduto tutto.
La poltrona è ispida , è sporca, puzza, odora di sperma, odora di schifo.
Papàà! Urlo. Dove sei papà? Ti odio. Ti ho sempre odiato . E’tutta colpa tua. Sulla sedia in cucina sta seduta mia madre e piange. Io l’accarezzo ma lei non mi risponde. Vieni con me mamma! Vieni con me!Ti porto nella mia camera. Ti voglio bene mamma. Vieni a vedere i vetri appannati e la mia chitarra.
Francesca vuoi mettere un cd. Per favore. Fallo per me , l’ultimo poi vai via, poi scappi, magari scappo anche io, riprendiamo la nostra panda. Sarà ancora lì non lontano da Firenze.
E’tutto buio ma la musica parte. E’ancora lui, come una volta come sempre è ancora Kurt, si lamenta e io con lui.
Nessuno. Non c’è nessuno in questa casa Hank. Sei solo. Lo sei sempre stato. Mi sussurra. Non si convince che sta mentendo , lui mente e io lo so. Lui non sa che sono scappato dalla provincia , lui non lo sa .
Vivevo di notte io. Perché di notte vivono gli uomini che non sarebbero dovuti nascere. Io sono un mai nato , ma voi non lo sapete. E’ vero Francesca? Tu lo avevi capito.
Mi muovo sinuoso , come un serpente , come un rettile striscio e cambio la pelle. E il cuore fa tre battiti forti , bum, bum e ancora più forte bum!
Sono bagnato , sono fradicio : è quella notte sul terrazzo quando il fumo mi riempiva la testa, e intorno avevo la mia provincia di merda. Lì tutto muore , li niente nasce, lì non c’è posto per i diversi. Se non sei conforme sei un predestinato, predestinato alla morte, sei come Giuda e tutti ti additano e tutti ti guardano e tutti parlano e si pensano sapienti e vogliono impartirti la loro sapienza e tu non puoi niente se non fuggire, se non stare lontano e vivere di notte quando loro dormono o quando pensano di stare vivendo.
Alla mattina incontravo una bestia al mio tavolo, ho mangiato con lei.
Tu mi puoi capire, tu puoi ma ora si fa tutto freddo, e non vedo niente più che le mie tenebre e la mia malattia, non è vita. Chi nasce diverso è destinato a morire, non c’è spazio per noi, sono una puttana qualunque, non c’è spazio e neppure più tempo, non c’è più notte.
Vorrei tornare ai vent’anni e rinchiudermi nella mia camera, e rimanere li accovacciato come un bambino dimenticato dalla mamma nel parco, come un bambino abbandonato su una panchina io e i miei rimorsi e la mia vita e i miei sogni.
Non morire Hank. Ma io devo morire, non ha più senso , non conosco più giorni che non siano di dolore, e il dolore mi fa compagnia come un giocattolo , è rotto ma lo porto sempre con me.
Ora stai zitto Kurt, scusa, per favore, taci . Francesca fallo tacere. E sinuoso mi inoltro in questa sabbia e lascio un solco facile a scomparire e mi aggrappo all’ultima sedia della cucina mi volto verso il soffitto e il neon mi abbaglia e urlo e urlo e urlo e urlo e urlo. Troppo silenzio in queste ore, troppe voci nella vita passata.
Ogni sguardo al soffitto è una lama  che fende le palpebre , le mie pupille si dilatano e si restringono, come una danza tribale , al suono di mille tamburi mille amazzoni mi tengono in braccio , ma sento ancora più freddo. E’ la morte? E’ la morte, Francesca? E’ la morte, mamma?Mamma.
Mi avevi capito mamma. Lo avevi capito , dimmelo , non ci saranno nuove albe dimmelo. E sussurra di si, sussurra ancora si. Lo sapeva. Ecco l’ ultima felicità. Non provo più strazio, non ora. Lei lo sapeva, sapeva che sarei andato via prima o poi.
E a fatica chiudo ogni cosa e mentre sento il gelo, stacco la corrente e un rumore secco pervade l’aria. Buio. Dolce , tanto dolce mi penetra nelle narici l’odore del gas. Mi accovaccio , ecco mi riconosco riflesso, sono io , sono finalmente io, torno ad essere un feto e non soffro più.

***

Quando la polizia entrò in casa trovò la donna seduta al tavolo della cucina , stava iniziando a piovere ma ogni finestra era aperta. Ai suoi piedi giaceva accovacciato un ragazzo, le mani erano contratte in una forma innaturale, i capelli coprivano per metà un sorriso.

domenica 26 agosto 2012

Venti anni di prime impressioni.

Quando mi chiedevano se mi piacesse il rock rispondevo con un secco no.
Ho passato molti anni ad inarcare sopracciglia, alzare le spalle e ribadire no sbuffati a labbra semi chiuse.
Mai tante spiegazioni eppure mi convincevo con disumana facilità. E no bastava.
Le serie tv? Le serie tv le guardi? Mi chiedevano. E io rispondevo con uno sbiascicato no.
Semplice , innocuo, presuntuoso.
Eppure un ragazzino che si pensa ragionevolmente intelligente non si accontenta di un no e basta. Ma era così, è stato così per circa vent’anni.
Vent’anni di prime impressioni.
Spingersi oltre la crosta di qualcosa che potesse sembrare seminuovo o diverso dall’universo che mi ero costruito intorno e in cui regnavo incontrastato mi sembrava abominevole, oltraggioso , a tratti sacrilego.
Non esiste altra ragione che la tua. Non esistono altre prospettive che quelle che credi di possedere e magari effettivamente possiedi ma addomestichi a mò di sapere universale. Non esiste altro nella mente e nel petto di chi ha vissuto per un bel po’ infarcito di troppe convinzioni.
Il corpo, gli abiti, lo sport, il cinema,la vita sociale,la vita.
Il meccanismo è semplice, disarmante.
Ogni porta resta sistematicamente chiusa. Ogni percorso nuovo sbarrato.
Niente nella mente e nel cuore, perché niente penetra. Restano soffocati in una prima impressione interminabili viaggi ed emozioni non indagate. Restano intrappolate in un battito di ciglia e rimangono lì fino a quando scopri di essere diventato nient’altro che la prima impressione di te stesso.

giovedì 19 luglio 2012

E'finito tutto.

A Paolo Borsellino,
 a Giovanni Falcone,
ad un Paese che ha bisogno di troppi eroi.



Mondello. Bellezza e sangue.
Ci aveva pensato per notti intere, lo aveva proposto all’editore ma non era piaciuto.
Gli avevano risposto: “si bella cagata”. Allora Giovanni s’era rassegnato , aveva preso il manoscritto ed era uscito dal faraonico palazzo immerso nei laghi artificiali di Milano2.
Aveva attraversato le arcate del portico novecentesco e si era tuffato nel traffico.
Ora la teneva davanti, se la ricordava diversa, meno spoglia, meno triste, meno siciliana. Sembrava che il deserto avesse mangiato parte delle strade reali che portano al mare, che la sabbia avesse mangiato qualche pezzo di muro per rendere conto alla storia di un logorio durato anni e che stava esplodendo con tutta la sua forza.
Aveva visitato Mondello ,per la prima volta,  a diciotto anni durante un singolare viaggio alla fine dei cinque anni di liceo. Sarebbe dovuto partire per la Francia, per approfondire la lingua ma nessuno s’era prestato ad un’esperienza tanto noiosa subito dopo la maturità. Allora si convinse per la Sicilia. Nell’ultimo anno ci era stato una decina di volte, la gran parte delle quali dopo il dodici di Marzo.
Quel giorno aveva ricevuto una telefonata alle dieci di mattina. All’altro capo del telefono la voce vibrante e concitata del suo caporedattore era esplosa in un profluvio di frasi sconnesse. In quel marasma di parole aveva capito due cose: una macchina lo attendeva all’angolo della strada per condurlo all’aeroporto, avrebbe dovuto prendere il primo aereo per Palermo. La seconda avrebbe sconvolto i suoi piani per un po’ di tempo.
Qualcuno aveva ammazzato l’onorevole Lima.


-Piglia la vespa e andiamo!-
Alle otto in punto Agata era scesa in cortile , aveva attraversato il vialetto tra le quattro palme che ne circondano il perimetro e si era seduta sul terzo scalino del portone d’ ingresso.
Manfredi era appena passato correndo veloce come una saetta. Lei gli aveva urlato contro : se non si fossero messi in sella alla motocicletta entro dieci minuti non sarebbero arrivati all’Addaura  prima delle undici.
Agata e Manfredi sono fidanzati da sei anni , lei ne  aveva tredici  quando conobbe Manfredino appena quattordicenne sulla soglia del Regina Margherita di Palermo. Era arrivato tutto trafelato con un cartoccio di panelle tra le mani , le aveva chiesto di mantenerle e poi per pietà gliene aveva offerte due. Si erano conosciuti così.
Lui scuro scuro di capelli e di carnagione , lei bella come il sole. Una bellezza mediterranea che a vent’anni era sbocciata con prepotenza , turbando Manfredi non poco , scuotendolo da capo a piedi.
Era diventato gelosissimo dopo una sera trascorsa l’estate prima davanti al duomo di Monreale.
Erano seduti a mangiare una brioche con la granita, faceva caldo e Agata aveva le gambe scoperte fino al ginocchio. A Manfredi la cosa piaceva poco. Era bastato un caffè offerto dal figlio del proprietario del bar a scatenare una rissa sedata solo quando Agata aveva minacciato di lanciarsi da un parapetto in fondo alla piazza. Anche se lo avesse fatto non sarebbe caduta che per un metro o poco più.
Manfredi era un portento a schivare le migliaia di macchine che affollano Palermo d’estate.
Avevano progettato quella fuga per settimane , avrebbero dovuto raggiungere la solita caletta dell’Addaura il giorno prima ma il professor Settimio aveva spostato l’ultimo esame della sessione al diciotto Luglio.




L’ha preparato in troppo poco tempo perché possa prendere un buon voto ma il padre non vuole saperne. Gli ha chiesto di sostenerlo alla sessione successiva ma nulla.
-Devi fare il tuo dovere, fino in fondo, il voto non importa-
E’stato lapidario, come sempre ultimamente.
Lucia maledice il caldo, maledice il fratello che dopo l’esame di commerciale è fuggito al mare.
S’è alzata prestissimo. Sono le undici e studia già da sei ore.




Salvo Lima è morto ammazzato alle nove e venti del dodici Marzo.
A via delle Palme non c’è neppure una targa a ricordarlo.
Ciò sorprende moltissimo Giovanni.
Una terra di sangue nel sangue stava dimenticando tutto, i morti e la loro memoria. Si era convinto però che l’assassinio di Lima era stato il primo colpo di una guerra aperta. Il primo caduto dopo il Gennaio di quell’anno. A Gennaio si era conclusa la fase d’appello del più grande processo per mafia. Tutte le condanne impartite ai principali boss erano state confermate.
Giovanni aveva scritto il suo primo articolo sull’argomento agli inizi di Febbraio:centocinquanta parole scarse , un pezzo mediocre per commentare l’assalto a Cosa Nostra.
Si era convinto che l’onorevole Lima fosse l’anello di congiunzione tra Roma e il secondo Stato.
Il caldo è assordante, gli penetra nella pelle e sembra passargli i muscoli per raggiungere le ossa. Ha fittato una piccola seicento per spostarsi tra Palermo e la pensione dove soggiorna.
Sono le undici e le strade sono deserte. E’ questa la prima estate di guerra.
Non esistono più trincee a Palermo e in Sicilia, né trincee per proteggersi né per meditare l’attacco, non esistono trincee per chi combatte né ve ne sono per chi temporeggia. Tutti , indistintamente, da Gennaio giocano nudi, senza guarentigie. Senza onore sparano i sicari, nelle piazze davanti ai bambini, davanti alle madri, non cercano riparo i magistrati che dopo l’attentato a Falcone hanno capito che o si combatte da soli o si muore.
Tutti camminano sul sangue e prima o poi ci scivolano dentro. Sporcandosi. Tutti.
Questi pensieri affollano la mente di Giovanni , gli attraversano le tempie mentre tiene una Malboro nell’angolo sinistro della bocca, uncinandola con il labbro superiore.
A Palermo gli hanno promesso un incontro riservato per il suo libro.


L’Addaura è incantevole.
Scappano lì ogni estate , da quando si sono conosciuti.
Manfredi ha assicurato alla meglio la sua vespa ad un lampione mezzo divelto sulla strada periferica che conduce a una delle spiagge. Agata ha preso la borsa con l’acqua ghiacciata , il fagotto con la pasta al forno e la scodella con l’uva già sciacquata.
Manfredi si allunga, goffo e apprensivo, per sottrarle la borsa che crede pesante e Agata per fargli piacere , gliela cede. Il sole batte sugli scogli della caletta dell’Alloro e rimbalza prepotente sulle loro gambe.
I capelli di Agata mal sopportano la salsedine e la calura estiva così Manfredi, credendolo funzionale, caccia dal suo zaino un enorme cappello di paglia rimediato dall’armadio della madre.
Agata ancora una volta lo asseconda indossandolo.
Non conoscono pace le madri, tutt’intorno è morte e i due giovani lo sanno, non possono ignorarlo ma devono continuare ad amarsi. Amarsi è un dovere in questa terra, in questi giorni.
Se smettessero di farlo sarebbe finita , per tutti.
Nelle ultime settimane Agata ha messo su qualche chilo e il costume esalta non poco le acquistate rotondità.


A l’una Lucia chiude i libri di farmacia. E’ stanca e accaldata per continuare a studiare.
Si dirige verso la cucina. Ha da poco appreso da suo fratello che i suoi avrebbero pranzato nella villa del professor Tricoli. Un vecchio amico di famiglia.  
Ringraziò Iddio di essere scampata al supplizio. Quell’uomo non le era stato mai molto simpatico. Ad ogni loro incontro non faceva altro che tempestarla  di domande. Il vecchio docente  stravedeva invece per suo fratello o forse stravedeva per i suoi studi di giurisprudenza condotti con un successo imbarazzante.
Lucia aveva sempre ritenuto che gli studenti di quella facoltà potessero distinguersi in due categorie : gli stupidi e gli ottusi. I mali peggiori venivano dall’intersezione dei due insiemi.


Alle due Giovanni è già a Palermo con un’ora d’anticipo.
Fa per sedersi al tavolino di un bar, uno dei pochi aperti di domenica pomeriggio in un periodo così lontano dal campionato di calcio, quando il suo telefono prende a squillare.
Riconosce chiaramente la voce spessa e roca del suo interlocutore.
Il loro appuntamento sarebbe slittato di un ora e mezzo.
Il dottore era stato braccato dalla moglie sulla soglia di casa, lo avevano obbligato ad intrattenersi per pranzo a casa di amici e prima di raggiungerlo sarebbe dovuto passare dalla madre.
Giovanni distende le gambe, ordina un caffè freddo e s’accende una sigaretta.
L’ultima della giornata.


Agata non avrebbe voluto ma Manfredi era stato incontenibile.
Si erano nascosti dietro il solito scoglio e avevano fatto l’amore per due volte di seguito.
Manfredi l’aveva baciata a lungo, le aveva accarezzato i capelli ricci che all’ombra della roccia si facevano ancora più scuri. Lei non lo guardava , il suo sguardo era perso , fisso ,vuoto.
Manfredi non avrebbe voluto ma non riuscì a tacere.
-Che ti prende?-
-Nulla-
-Che ti pigliò cinque minuti fa? Non hai detto una parla. Se non volevi farlo bastava dirlo. Non mi devi accontentare-
-Andiamocene-
Agata aveva il volto rigato dal pianto. Manfredi stavolta preferì non parlare.
Si misero in sella alla vespa che nessuno s’era sognato di rubare. Si diressero verso Palermo senza aver neppure fatto il bagno.


Il pranzo nella villa  del professor Tricoli era finito da un pezzo, il padre di Lucia s’era rinchiuso in una camera della casa per riposare anche se non sarebbe riuscito a chiudere occhio.
Poco prima aveva chiamato il giornalista del Corriere a cui aveva promesso un incontro e che era già a Palermo ad aspettarlo. Purtroppo per lui l’attesa si sarebbe prolungata di almeno un’ora.
Spense l’ultima sigaretta in un posacenere già affollato, si rese conto che se non avesse aperto la finestra quella camera sarebbe stata invasa dal fumo. Prese i suoi appunti e lei ultime carte , raccolse tutto nelle due valigette e si diresse verso il cancello d’ingresso.
La moglie Agnese rimase a salutarlo sulla soglia della porta mentre suo figlio lo condusse sino alla macchina scortata.



Alle quattro e un quarto Giovanni è a Via della Favorita.
Parcheggia la seicento all’angolo della strada. Dietro una vespa azzurrina controllata a vista da due fidanzatini. La ragazza in realtà sembra curarsi poco della posizione precaria del mezzo. Ha gli occhi inondati di lacrime.
Il dottore sarebbe arrivato di lì a poco.


-Sono incinta, Manfrè, sono incinta-
Aveva aspettato d’arrivare sotto casa per annunciarglielo. Poi non aveva più aperto bocca.
Manfredi l’aveva abbracciata silenzioso. Le aveva baciato la guancia bagnata dalle lacrime.
Erano rimasti a fissare la strada deserta per minuti interi.
Quando erano quasi le cinque tre macchine erano sfrecciate davanti ai loro occhi fendendo quella coltre di silenzio che stava ovattando il pomeriggio palermitano.

Tre blindate erano sfrecciate davanti all’imboccatura della strada dove aveva parcheggiato la macchina noleggiata.


Bollente. L’asfalto è bollente. In alcuni punti ancora fiamme.
L’eco del boato vaga  tra le strade intorno, s’insinua tra i palazzi sventrati, si serve dei vetri delle ultime finestre rimaste sane per tornare indietro fino all’orecchio di chi era lì in quegli istanti.
Un sibilo cresciuto senza preavviso, come un soffio a guance piene, ma milioni di volte più forte.
Via D’Amelio è un cantiere, un campo di battaglia abbandonato dagli ultimi militi, è rimasta silente dopo il suono assordante dell’esplosione arrivata sino in Via della Favorita dove era rimasto ad aspettare.
Nel silenzio si insinuano le prime sirene, presaghe di una carneficina disumana.
Il taccuino è stretto nella mano destra ma costretto in fondo alla tasca dei pantaloni. Non osa uscire. Bastano gli occhi a testimoniare lo scempio.
Brandelli , solo brandelli. Niente di più.
L’acqua irrorata dai primi pompieri impasta tutto. Tutto diventa fango e nel fango si perde. Il sangue , la carne, gli stracci.
Giovanni attraversa la strada verticalmente , facendosi largo tra le prime forze dell’ordine.
Mezzo coperto da un lenzuolo già tinto dalla polvere  giace quel che resta del corpo dell’uomo che gli aveva promesso un incontro. Affianco a lui , immobile, lo fissa la figlia Laura fino a quando gli ufficiali non la trascinano via di peso.
E’finito tutto. Lo avrebbe sussurrato anche Caponnetto, è finito tutto.
Palermo negli ultimi mesi è diventata la nuova Kabul, la Kabul dell’occidente, una città di martiri.
I martiri di un Paese che non riesce a vivere senza, di una nazione che ha bisogni di voci soffocate nel sangue per ridestare i giusti.
Tutti si laveranno le mani e potranno esclamare a gran voce è stata la Mafia!
Una chimera , una presenza comodamente evanescente , il baule in cui stipare gli spettri di una classe politica inadempiente , collusa e corrotta.
E’stata la mafia , certo. Ma la Mafia è nello Stato, si ciba dello Stato e degli uomini giusti, le sue mani sono quelle dei funzionari e degli uomini pubblici disonesti,dei colletti bianchi dalle mani scarlatte.
Alla fine della strada , oltre i cadaveri, le sirene e il sangue due ragazzi si tengono per mano, il loro sguardo è perso nel vuoto, il loro pensiero sembra altrove.

giovedì 12 luglio 2012

Fino a che non viene il mattino.


Una sera di novembre  un mio amico fuggito disse che la vita è una questione di priorità. Quella volta è iniziato un tempo nuovo.
Ognuno di noi conosce tempi sempre nuovi e sempre diversi. Ogni evento , ogni parola , ogni gesto può essere un anno nuovo. Una vita può durare un secondo, il tempo di una sensazione , di una convinzione , di un pensiero affiorato per sbaglio tra qualche manciata di illusioni.
Non esistono vite tutte d’un pezzo, in ognuna ce ne sono inevitabilmente tre o quattro, se vi va bene, ma in media mai meno di qualche centinaio. Si rinasce continuamente: io oggi sono nato tre volte. Durante questa settimana venti o forse trenta.
Ogni tempo è sempre diverso e quando si nasce si nasce per intero. Mai uguali a prima , mai uguali a sé stessi.
Qualche alba fa non vedevo altro in una vita perfetta che la realizzazione di un lavoro ben pagato, agghindato di successo, ubriaco di danaro e cortesie. Mi pareva l’esistenza perfetta.
Per grazia quella era la vita di un momento, l’avevo concepita tra troppe certezze nutrite di arroganza e di saccenza. Si vive col petto pieno se si vive di facili soddisfazioni o  troppe adulazioni.
Non voglio oggi che le vite che verranno trascorrano senza una mano da stringere , con cui invecchiare badando ai giorni che passano, alla mente che s’accartoccia e perde vigore, alla casa, alle ginocchia sbucciate di bambini che non danno pace; preparando il pranzo della domenica , pensando alla sera, quando si va a dormire, al lavoro del lunedì ma senza badarci poi tanto perché fino a mezzanotte è ancora domenica e fino a che non viene il mattino ,nel letto sull’altro cuscino riposa il capo di chi ha condiviso l’amore.

mercoledì 27 giugno 2012

Chi cerca l'amore.


Gli occhi di chi cerca l’amore narrano storie sconosciute e lontane, narrano sofferenza e dolore.
Vaga mai pago per le strade della città ; tra i rivoli della mente si piega sul suo letto alla sera e con l’ultima luce se ne va , come l’incenso nella chiesa in poche evoluzioni , l’idea decorata di una vita serena. Non ha compagni chi cerca l’amore, è soldato disarmato o armato male sul campo bruciato , e  non trova che erba secca e ingiallita, non fiori.
Muore ogni giorno , nella pietà e tra le troppe parole di chi dispensa conforto  come un venditore di saliere dell’est spacciate per opere d’arte.
Siate sinceri con chi cerca l’amore. Questi s’innamora di tutto.


martedì 12 giugno 2012

Un cesto di ciliegie.


Vorrei essere un cesto di ciliegie colorate di rosso vermiglio, a tratti sfumate di bianco, per riflettere sulla superficie lucida il sole dei giorni d’estate, per essere portato alle labbra carnose da una donna prosperosa e poco vestita.
Il cesto che l’amante dona all’amata , col disincanto negli occhi, perso nello sguardo di giorni che non finiscono se non con un bacio di sera.

Ho mangiato ciliegie quand’ero bambino da maggio ad agosto , coi calzoni al ginocchio e il caldo che m’avvolgeva le tempie , mio padre seduto sulla sdraio al fresco e mia madre in cucina tra i piatti della domenica.  Quando conobbi Lauretta le portai un piattino di ciliegie rossissime e lei in cambio mi baciò le guance , avevo dieci anni e mi bastò , arrossì tanto che non mi feci più vedere per due settimane. La prima notte di nozze Lauretta profumava di ciliegie e ci amammo intensamente ricordandoci bambini, stesi a guardare il soffitto con le mani intrecciate all’altezza dei nostri bacini nudi. I suoi seni sapevano di fragranze ignote e la sua carne sapeva di buono come sanno di buono i piatti della casa d’infanzia.

Misi i noccioli di tre o quattro ciliegie in una fionda improvvisata fatta col legno di un albicocco della terra di mia nonna,  colpivo a più riprese la nuca di Alberto. Quanta gioia in quell’amicizia, quanto intendimento che nella mia vita non ho scorto più altrove. Poche cose bastavano allora, prima di conoscere le ragazze, prima che non ci bastassimo più noi.
Crescemmo però ricordandoci spesso quelle ciliegie. Condividendo silenzi scoprii il silenzio. Scoprii che non ti è vicino chi cerca l’affanno verboso di discorsi infiniti ma chi ti siede accanto tacendo e non provando imbarazzi. E senza arrossire scruta gli sguardi.

Mamma lavava nell’acqua gelata le ciliegie e io la guardavo come si guarda una santa , come si guarda la madonna , con l’amore quasi carnale del figlio. Poi lei mi passava accanto e distratta mi cedeva una ciliegia che io accoglievo sorridendo.
Quanto amore.



mercoledì 30 maggio 2012

Hank. episodio 2

Hank non riesce a dormire.
Alle tre in punto ha iniziato a scalciare come faceva da bambino. Per il suo trotto notturno, a  sei anni, i genitori lo esiliarono in una piccola camera in fondo al corridoio , lì avrebbe potuto scalciare  quanto gli pareva. Quello spazio poi fu adattato alle esigenze familiari: una parete di cartongesso ne fece due ripostigli. Uno , da dieci anni, vuoto.
Si è piantato nel mezzo del letto per due ore buone, si è acceso una Malboro, l’ultima del pacchetto ed è uscito fuori , nella terrazza che affaccia sulla strada principale.
Ha dimenticato che è inverno e il freddo gliela fa pagare. Come tanti spilli il gelo gli penetra nella carne e poi nelle ossa. Solo la mezza sigaretta è rimasta a dargli conforto.
Appoggia i gomiti sulla balaustra ghiacciata che inizia ad affondare nella pelle, lascerà un solco duro a scomparire.
Ci sono uno o due gradi eppure il petto di Hank ribolle, di fumo e di rabbia.
E’ un sentimento con cui ha imparato a convivere, dall’età di dieci anni se ne è fatto una ragione, la rabbia è il suo carburante. Si è rifugiato nella rabbia per non cadere nell’inerzia a cui avrebbero voluto condurlo i suoi genitori e gli imprenditori della noia. Quest’ultima  per Hank è la categoria da vincere : un club di donne e uomini grigi che ha monopolizzato il capitale umano del suo tempo, svuotandolo fino all’osso . Hanno conquistato tutti, bambini , donne e vecchi, senza che nessuno si sia ribellato. Per ventidue anni ha combattuto da solo contro i grigi , contro le loro stupide cravatte a fiorellini e pois , contro i loro modi cortesi , contro la loro  soffocante e spietata moderazione. Da solo, fino a una settimana fa.

Sono le nove e la casa è deserta, sono tutti a lavoro, Hank sarebbe dovuto scendere alle sette ma non ha sentito la sveglia.
In questa stanza c’è puzza di merda sono state le ultime parole di sua madre , poi il rumore della porta sbattuta e finalmente il silenzio.
La casa rimarrà libera fino al tardo pomeriggio e per Hank è come salire in Paradiso per un giorno. In vent’anni e poco più di vita ha imparato tutto: a rammendarsi i calzini, stirare le camice, rassettare la camera , per quanto possibile, tutto tranne  cucinare. A l’una in punto il panico prende il sopravvento , il frigo è vuoto. Si avventa sull’ultimo panetto di burro, lo ammorbidisce con il cucchiaio e lo fa entrare a forza in panino all’olio. Uno schifo.
In tutti questi anni non è entrato più di quattro volte nella stanza dei genitori, la penultima quando è morta la nonna: era rimasto sulla soglia ,con lo sguardo perso , assente da quello che lo circondava , s’era appoggiato ad uno stipite e un piede per volta s’era spinto fino alla terza mattonella, giusto il tempo di vederla cadavere. L’ultima volta era entrato di nascosto dai suoi, in piena notte. Gioia , sua madre, era rimasta a dormire in soggiorno come è solita fare quando il marito ha il turno delle ventitré. Hank entrò avanzando sui talloni , l’equilibrio precario gli fece tremare le braccia e il collo. Tentò di ridurre al minimo qualsiasi rumore , appena fu sul lato sinistro del letto si gettò in terra ,come un serpente si spinse fino alla base del comodino di suo padre  e con una mossa incredibile  infilò in un vano la sua scatola di latta.
Hank ha imparato che il nemico si vince in tre mosse : fottersene, infiltrarsi, fottere. L’ultima operazione nella camera dei suoi rientra nella terza categoria d’azione.
Alle tre del pomeriggio tutto è avvolto dal silenzio,  il solo rumore è quello prodotto dal rubinetto del bagno rotto da tre settimane , in strada non una macchina. Ha ancora quattro ore di serenità.
Abbandona la cucina per dirigersi verso il corridoio, lo attraversa tutto e a passi lunghi varca il campo avversario, con una mano si regge con l’altra recupera il bottino.
Avevano comprato quella scatola durante l’ultimo viaggio a Parigi, dentro erano custodite delle disgustose gallette francesi. Tre settimane fa ha sentito suo padre dimenarsi come una bestia tra i mobili della cucina : le fette biscottate aromatizzate all’orzo erano finite e Gioia aveva disgraziatamente dimenticato di rifornirsene. Hank ha sempre odiato le fette all’orzo. Una categoria stupida di biscotti per  consumatori stupidi, convinti che gli omini del mulino trascorrano le giornate ad aromatizzare le fette tostate. Suo padre ritiene che una finissima differenza di sapore ,percettibile solo ai più attenti , governi i biscotti aromatizzati. Quella mattina Hank si precipitò in cucina , consegnò a suo padre le gallette e ottenne in cambio la scatola di latta.
Ora è lì, sul letto ancora sfatto , colma di merce comprata a caro prezzo.
Il sole del primo pomeriggio invade la sua camera, quando spalanca la finestra che dà sul terrazzo il volto è avvolto da un insolito torpore. La lascia aperta e si avvia verso il lato in cui la ringhiera che delimita il perimetro corre parallela a quella dei nuovi vicini. Si siede nell’angolo  su un paio di quotidiani , impugna l’accendino e dopo tre tiri poggia la testa al muro ruvido.
E’ davvero in Paradiso. Un brivido gli percorre la schiena. Socchiude le palpebre.

-Cazzo! Ti tratti bene, questa sì che si chiama maria!-

Vorrebbe non aver sentito , vorrebbe essersi sbagliato , invece no. Qualche bastardo ha rotto il suo idillio, ora gli toccherà alzarsi e fingersi dispiaciuto, magari scusarsi e rientrare in casa, era persino riuscito a dimenticare l’orrendo panino al burro che adesso gli risale su per l’esofago.
Spalanca di scatto gli occhi.
Dal terrazzo attiguo un corpo incantevole si protende verso il suo.

-Sei già fatto?-

Hank è ancora tutto rannicchiato , non fa in tempo ad articolare una risposta plausibile che la mano dell’invasore si fa largo tra le due ringhiere e con un gesto fulmineo gli sottrae quanto a fatica aveva confezionato.



Quando inizia a piovere Hank non se ne accorge neppure, si sta bagnando e tra qualche minuto sarà fradicio. Pensa al suo incontro di una settimana fa, se ne era stato tre ore seduto in un angolo di quel terrazzo , fianco a fianco con una perfetta sconosciuta a fumare.
Si erano scambiati poche parole , troppe per entrambi, pochissime per il resto del mondo. Eppure a loro erano bastate. Lei gli aveva promesso di fargli provare una riserva del duemilaotto, così l’aveva chiamata. Lui aveva strizzato un occhio in una maniera goffissima.
“Comunque , piacere Francesca” gli aveva detto prima di sollevarsi dal pavimento ghiacciato, lui l’aveva ripagata col suo nome. Francesca aveva risposto con un cenno del capo, niente di più.

giovedì 24 maggio 2012

Hank.

Il primo giorno del quarto ginnasio Hank ha preso posto nell’angolo , nel punto più estremo dell’aula, quello più distante dalla porta d’ingresso.
Si è incastonato lì, tra il banco , il muro e la finestra. Lì ha scovato il suo mondo. Se ne sta seduto con le gambe serrate in alto , fin sotto la superficie di lavoro; le braccia affusolate rimangono incollate ai polpacci.
Parla poco Hank. Si e no quattro discorsi compiuti in due anni. Gli occhi non stanno mai fermi, mendicano in giro per l’aula storie con cui intrattenersi; una penna abbandonata o una scrittura fresca possono scatenare abissi di riflessioni imperscrutabili.
Hanno imparato a non dargli a parlare e lui ne è contento, odia le false cortesie ; per qualche mese tutti si erano esercitati in uno sport estremo : capire Hank. A lui non interessava e per reazione si faceva più indecifrabile.
Era nato alla fine degli anni ottanta , in una cittadina della provincia, in quella realtà di famiglie sfacciatamente ricche e sfacciatamente conformiste. Due sole scariche di adrenalina avevano percorso la schiena di sua madre nel corso della sua esistenza: la prima quando aveva sposato il padre di Hank, il più grande affare mai concluso da mezzo secolo a quella parte dalla sua famiglia, e la seconda quando aveva deciso di chiamare suo figlio con un nome americano.

Fa sera presto , da Settembre fa sera presto. Ma è meglio così, quando il sole se ne va tutti sono meno disposti a romperti il cazzo, perché è sera e pensano a domani. Quando il sole se ne va, Hank si chiude in camera.
Stasera fa freddo e la condensa conquista i vetri, sulla scrivania , sotto la lampada volteggiano gli ultimi fumi di una mezza Malboro. Le gambe accavallate rimangono quasi annodate sul cuscino della poltrona , sotto il peso della chitarra , ma questo mezzo dolore gli provoca improvvise scariche di adrenalina. Hank si unisce al legno e alle corde e rinasce.
E’ un mai nato, uno di quelli che il mondo ha scansato girando le spalle, uno di quelli che incontri per strada e non vedi . E’arrivato a sentirsi un feto , un aborto malauguratamente resuscitato.
Poi per fortuna il giorno finisce e lui può tornare embrione. Con la sua musica , tra migliaia di vibrazioni.
Recupera la sigaretta e si avvicina alla finestra , sente il fumo attraversargli la bocca e poi il petto. Espira e  in un ultima boccata se ne vanno i pensieri vecchi e la mente accoglie i nuovi nati ; nati dal fumo e dalla musica.
I cinque anni di liceo sono volati, come l’ultima evoluzione del  tiro che conclude la giornata, si sono disintegrati nella sua mente, se li è portati via la rabbia. Poi è venuta l’università , la cresima della vita borghese, la conferma dovuta di un figlio della buona società .
Dopo le superiori sarebbe voluto scappare, magari dopo la maturità, avrebbe fatto in tempo ma non c’è riuscito , è rimasto incastrato con un piede tra i banchi e uno, sempre, nel suo mondo.
Una sera suo padre l’ha preso per un braccio e l’ha costretto a sedere, non era mai accaduto prima , non si erano mai guardati negli occhi e se qualcuno glielo avesse chiesto non avrebbe saputo neppure rispondere di che colore fossero quelli di suo padre. Quella sera gli chiese il conto.
Al padre di Hank bastava una vita media, come era stata la sua e quella di suo padre e ancora quella  di suo nonno. Lui doveva solo pensare a finire gli studi, all’impiego avrebbe provveduto lui.
Hank annuì e tornò alle sue sere.
Guarda fisso fuori , oltre il vetro e pensa alle ultime settimane. Si sente un mendicante ,
vorrebbe essere nato altrove e in un altro tempo. Ha dall’età di dieci anni maledetto il suo nome, da allora , a chiunque gli chieda per quale motivo se ne sta abbandonato come una merda qualunque, dimenticata da Dio e dagli uomini , lui risponde che non ha nulla contro il Creatore , bensì ha , da sempre, una naturale avversità contro gli esseri umani. Proprio come Kurt che ogni sera gli tiene compagnia.
Quando l’ultimo rito della giornata si è compiuto si dirige verso il letto, freddo.
Si stende,  il bianco del soffitto cede al nero delle palpebre serrate, pensa alle elemosine rifiutate mentre  il sapore della sigaretta si dissolve tra la lingua e il palato e insieme ad esso si dissolve un ultimo pensiero: Francesca.
Forse , un appiglio.

giovedì 17 maggio 2012

Grumo d'amore.


Mi ricordo i falò d’estate. Mi ricordo il rumore del legno scoppiettante e le scintille che si disperdono nell’aria di fuliggine come fuochi d’artificio. Il vino , le risate e le mani di mia madre.
I rami a mezz’aria e le lampadine di fortuna, il cielo di campagna e le nuvole dei primi di settembre.
Mi ricordo un bacio e le braccia fredde perché alle sette scende l’umido.
Mi ricordo che a diciotto anni mi portarono a fare il vestito per il matrimonio. Il mio.
A ventidue anni avevo Piero e Sara, una casa a Napoli e una vita davanti.
Quando mio marito Antonio è morto di tumore mi sono licenziata dall’impiego di moglie borghese e ho iniziato a lavorare in fabbrica , ero addetta all’incollaggio delle ceramiche poi la colla ha iniziato a farmi le mani a pezzi.
Madre di due creature a ventidue anni e vedova un anno dopo. L’Italia di allora non conosceva destino peggiore.
Dopo il licenziamento iniziai a lavorare come governante in una casa di corso Vittorio Emanuele , la paga era più che dignitosa. Alla sera rincasavo e pensavo ad Antonio.
Non avevo studiato molto , dopo la quinta elementare dovevo trovare da mangiare per i miei fratelli, ma avevo saputo rimediare. M’ero appassionata alla lettura , leggevo ovunque qualunque cosa e leggendo trascorrevo le mie serate.
Quando le sirene suonavano prendevo Sara in braccio ,  Piero rimaneva attaccato alla gamba e così, come un grumo informe , avanzavamo a passi lunghi verso il ricovero. Non eravamo niente più di grumo. Un grumo d’affetto e amore , indistinto e inarrivabile per gli altri, nessuno poteva comprenderci o solo avvicinarsi al nostro mondo, ci eravamo indispensabili perché soli. Dopo la morte di Antonio non m’ero più legata ad alcuno, era la giovinezza , il troppo amore per quell’uomo, erano Sara e Piero, era la guerra.
A ventiquattro anni inaugurai la mia terza vita. Avevo sentito parlare di un’Italia diversa e combattente dal centro al nord. Nei miei libri gli eroi mi portavano agli anni dell’infanzia mentre al seno allattavo Sara. E lei dal mio latte prendeva tutto , dalla mia carne le veniva il nutrimento delle viscere e della mente, la feci feconda , fertile ai pensieri di libertà che non ebbi tempo d’insegnarle. Infatti abbandonai Napoli. Lasciai i bambini a mia sorella, piangevo e tremavo insieme perché quel grumo s’era sfaldato, sentivo il petto lacerato, spaccato  in due parti.
Partivo per la Resistenza. Una terra lontana.
Nella mia mente la Resistenza s’era materializzata sin dal principio nell’immagine di una landa , popolata da cespugli bassi, da polvere e soldati. Non ero una sprovveduta, non lo sono mai stata, la vita m’aveva serbato mille insegnamenti , ogni giorno e ogni ora, ma non ero mai andata fuori dalla mia città, come quasi tutti i  napoletani di quegli anni. Tuttavia le riunioni con Alfredo, Rita , Franco e gli altri m’avevano portato in un’Italia diversa di uomini e donne combattenti e io ritenni d’avere la tempra giusta per unirmi a loro. Allora mi fecero piemontese e risorsi col nome di Carla.
Ero una partigiana. Ma questo lo appresi solo qualche anno dopo.
Sull’Appennino e sulle Alpi, nelle campagne di notte, all’ombra di frutteti sconosciuti combattevo il Nemico. Mi facevo eroina dei romanzi che avevo letto; io , una vedova, madre a vent’anni combattente per un popolo che non conoscevo ma amavo. Quanta ingenua franchezza , quanta meraviglia riscopro nei sogni di quelle notti. Consacravo i miei giorni all’amore e a Sara.
Quelle poche volte che mi fu concesso l’onore di fucilare uno di quelli, pensavo a Sara e le dedicavo il primo colpo e a Piero il secondo.
Nei primi tempi odoravo ancora di madre, odore dolce di fiori e di miele che sopperì all’odore acre del sangue e della morte. Uccisi la prima volta quando avevo ancora il latte nel seno. Mai smisi di leggere.
Col tempo compresi quanto grande fosse quella nostra impresa.
Le compagne e i compagni, il sangue, l’amore , i canti e l’inesprimibile gioia che mi derivava dall’avanzata , un metro di terra in più era un giorno in meno di oppressione ; avevamo la convinzione profonda di rifare il Paese.
In Guerra ero rinata e se fosse stato necessario avrei accettato di morirvi, ero arrivata alla mia terza vita da borghese decaduta , sola nel mio grumo mi ero nutrita dell’amore per i figli , uscivo dai combattimenti vincitrice. Da ognuno di essi.
Avevo vinto la mia guerra contro la solitudine , lo avevo fatto abbandonando per tre anni i miei figli, la sola ancora al mondo dell’anima e degli affetti,  ma sapevo di fare la scelta giusta; ho combattuto la guerra contro il Nemico per loro e per tutti gli altri figli, quelli a cui non ho dato il mio latte ma ai quali rivolsi sempre il pensiero nelle notti di tregua.
Ci chiamano eroi della Resistenza. Quando mi chiedono perché lo feci, perché abbandonai due creature e il tepore di una casa certa io rispondo sempre che avevo il dovere di farlo.
Nelle riunioni clandestine , dai giornali che non si vendevano e dalle radio che non esistevano scoprii un terra nuova. Sapevo che un paese nuovo stava nascendo , non potevo nascondermi.
Non si può conoscere e non agire, la conoscenza è un dono come è un dono l’amore, eppure entrambi implicano la sofferenza . Chi accetta di non amare pur di non soffrire? Solo gli stolti e gli sconfitti.
I primi sono perduti i secondi possono decidere di rialzarsi, sempre , ogni giorno. Io lo feci.
La sofferenza fu una benedizione per me , i miei bambini e la mia gente. Mi restituì all’amore per essi, un amore nuovo , meritato e pieno.
Oggi guardo la mia terra , i figli dei miei figli e si gonfiano gli occhi di pianto.
Tutto mi pare vano ma dentro, sotto queste vesti e sotto questa carne il cuore non ignora la natura menzognera dei miei pensieri.