mercoledì 10 giugno 2015

Au revoir!

Me ne vado, forse tornerò, non lo so o forse si, ma oggi poco importa.
L’ho già detto: non rimpiango nulla, nulla di nulla.
Qui ho scoperto chiavi e porte che non vedevo più; direi che in Erasmus si torna alla vita ma forse è esagerato, o forse no. Prima di partire scrissi che lasciavo a casa “cassetti colmi di universi che non trovano pace”, ebbene essi sono ancora lì, così armoniosamente disordinati.
Ho imparato tanto, tantissimo, non so quanto. Ho conosciuto ragazzi, professori, luoghi di cui mi sono innamorato. Mi sono appassionato. Ho conosciuto la Francia, quella vera, così lontana dai dannati stereotipi che ci piacciono. Mi sono conosciuto, molto di più.
Non dimentico nessuno, porto tutti con me.
Mi sento come la voce di Piaf: così tagliente, così invincibile, così forte, così gracile. Sono forte delle mille possibilità che ho ritrovato intorno a me, non se ne erano mai andate ma forse io avevo smesso di cercarle.
Quanto a voi che mi leggete, ve lo chiedo con tutta la forza che ho dentro: lasciate le vostre famiglie per tornarvi arricchiti, aprite il cuore, spalancate gli occhi alla bellezza, non restate ciechi. Conoscete, studiate e appassionatevi.
L’Erasmus è già nel vostro cuore, cercatelo.

Voyagez, marchez dans des rues que vous ne connaissez pas, sans peur, tombez amoureux de tout, laissez vous aller. Parlez avec les inconnus. Partagez.

Grazie a tutti.
Merci à tous.
Thank you everybody.

lunedì 2 marzo 2015

Elogio di San Sebastiano al Vesuvio.



I raggi di sole fendono prepotenti il silenzio della Domenica, quando due o tre macchine attraversano furtive e spietate le strade intorno al centro. Il silenzio della Domenica pomeriggio ha una vocazione  universale e una missione rasserenatrice. Affacciato alla finestra di Clermont, il silenzio mi ha trascinato nelle giornate agostane, ardenti e sospese, della mia città: la luce è battente e ipnotica, infuoca i sampietrini della piazza deserta dove si impone, rassicurante, la Chiesa.

Quando viene Settembre, le carte schioccano fragorose sui tavoli da gioco degli anziani del paese; a colpi interrotti e costanti le tazzine di caffè incontrano il marmo, è una sinfonia familiare, ritmata dal trafficare laborioso del Bar in centro. Qui il vento sfoglia il Corriere, porta via la cenere di sigarette che avvolgono le chiacchiere di piazza. Mi sembra di sentire il trombone della banda nelle processioni, da bimbo, al braccio di nonna. Questa terra è un cesto di radici che odora di migliaccio e pasta al forno.

San Sebastiano si lascia amare da lontano, quando lo sguardo non incontra più il Vesuvio. Nelle ore lontane,  fa tenerezza l’umanità di paese che pareva goffa e, talora, così detestabile quando salta in scena. Lì, la vita dei giovani è serena e distesa, è forse di attesa. Quella terra di provincia è una fucina di sogni e ambizioni pacate, lì si apprende l’arte di sorprendersi che è la virtù più nobile di chi non si rassegna alla noia di pensarsi uomo di mondo.  

La mia generazione fa capannelli per strada, in piazza, seduti sulle panchine, aggrappati alle ringhiere; i diciottenni sostano in groppa al motorino e col panino nelle mani; le donne escono dalla Chiesa dopo la messa delle sette.  Il pescivendolo lancia l’ultimo secchio d’acqua, il salumiere all’angolo è quello che chiude per ultimo, il rumore della saracinesca ogni volta è un tuono, le macchine sono poche e inizia a fare fresco, passa il vicino col cane, una coppia va in centro a prendere l’ultimo caffè della giornata.                   
Esco anche io, incontrerò di certo qualcuno.

lunedì 12 gennaio 2015

La fragilità del terrore: pagine di diario dei tre giorni più lunghi di Francia.



Sono seduto nella prima carrozza dell’intercity che da Parigi mi porta a Clermont.
Sono atterrato questa mattina in una Francia diversa da quella che mi aveva salutato prima della pausa natalizia. All’ingresso di Orly Sud l’albero di Natale ancora scintilla, decorazioni abbondanti pendono a ogni angolo dell’aeroporto ma nulla odora di festa.
Le Monde titola: “Le 11 semptembre français”. E’ così? Si tratta sicuramente una lettura di pancia e come tale inizia ad essere metabolizzata e si sta evolvendo in una visione più scandagliata dei fatti . Li hanno, ci hanno colpiti al cuore come accadde quasi quindici anni fa a Ground Zero. Hanno ferito la Francia e insieme l’Europa intera, tutti gli uomini e le donne di buona volontà della nostra Europa hanno perso un pezzo d’anima, cullato e cresciuto nel sogno di pace e prosperità che la mia generazione ha ricevuto in dono da quella che all’Europa unita aveva dato vita.
Forse era inevitabile che prima o poi accadesse, dicendola con Morin, per la natura di frontiera del nostro continente. Una ventina di anni fa sul confine dello scontro a freddo tra il blocco americano e quello russo, oggi, nell’incomprensione dei più, avvitata nell’architrave di una guerra santa senza frontiere e con infiniti campi di battaglia, tangibili e non.

                                                                                                                                    Giovedi 8 Gennaio

Io e Katia siamo incollati alla televisione, l’emotività che impregna ogni cosa fa lo stesso con noi. Ci sentiamo rapiti, assorti, ipnotizzati. E’ l’ipnosi del male.
Tele France trasmette su tutte le reti ininterrottamente da stamattina le operazioni delle teste di cuoio francesi. I fratelli Kouachi si sono asserragliati (sembra) in una tipografia a conduzione familiare di una cittadina a Nord di Parigi (sembra) e hanno degli ostaggi (sembra). A porte de Vincennes, in un’ epicerie ebraica, Coulibaly fa barricate, minaccia di ammazzare gli avventori del supermercato che, loro malgrado, sono ora i destinatari dei pensieri del mondo.
E’ un pomeriggio lunghissimo qui in Francia, le ore sono dilatate, tutto è sospeso. Nelle strade camminano in pochi, la televisione del vicino di pianerottolo fa eco alla nostra. Alla finestra, lo striscione su cui campeggia un “Nous sommes Charlie”, tratteggiato a caratteri cubitali, è travolto dalle folate di vento freddo.
Poi l’epilogo improvviso. I corrispondenti delle testate giornalistiche tacciono, le immagini invadono lo schermo: è guerra bella e buona, lì a qualche chilometro dalle nostre case, nel cuore della nostra Francia e dell’Europa intera. Granate e raffiche di mitra, colpi sparati di fila da mille uomini vestiti di nero immersi in una coltre di fumo. Katia si porta le ginocchia al mento. Hanno ammazzato i fratelli Kouachi; pochi minuti dopo è la volta di Coulibaly.
Ci fanno vedere tutto e forse è giusto così, il pudore non ha spazio nella guerra anche mediatica e forse è giusto così.
L’uomo imbraccia un arma che mi pare enorme e che non sono capace di identificare, si lancia attraverso la porta del supermarché Cacher, sembra rimanere sospeso a mezz’aria per qualche secondo, fino a quando ogni parte di quella massa indistinta che è il suo corpo, fasciato da abiti neri, è attraversata da una tempesta di proiettili. Precipita al suolo.
Ci guardiamo negli occhi, io e Katia, e torniamo a respirare.
Una sensazione di serenità mi attraversa, come un antidolorifico che inizia a produrre i suoi effetti nelle membra, sento che essa mi pervade e cerco di punirmi per questo ma non ci riesco e forse, in realtà, non lo voglio neppure.

                                                                                                                                     Venerdì 9 Gennaio

Chi può sale sulle panchine, qualcuno si arrampica sugli alberi, i bambini sono sulle spalle dei loro papà, i carrozzini condotti da madri pazienti si fanno strada e nessuno protesta per questo, una folla fitta di cartelli e giornali è agitata sopra la marea di teste e cappelli, applausi e canti improvvisati partono da ogni angolo, si canta la Marsigliese, si urla insieme e si porta il tempo col battito delle mani, siamo migliaia, milioni.
Marciamo insieme per ore, lentamente. Chiedo a Marika se lo avremmo fatto anche noi in Italia ma poco importa. Sono europeo e, credetemi, è un sentimento di amore e appartenenza che non ho mai messo in discussione, ma oggi, in mezzo a tutta questa gente di ogni età e di ogni provenienza, la vocazione alla libertà di cui la nostra storia ci investe, nel mezzo dell’umanità, mi pare eterna e invincibile.
Un uomo sulla sessantina è stretto tra noi e una famiglia con un bimbo di pochi mesi, ha gli occhi raggianti quest’uomo. Viene dall’Algeria e mostra con un ampio gesto del braccio due donne col capo coperto dal velo, forse la moglie e la figlia, così raccomandano le fattezze dei loro volti.
“Siamo musulmani”, dice, “e quello che è accaduto non c’entra nulla con la nostra religione”.
“Non sono francese, ma sono fiero di essere qui, in Francia”, ripete con voce ferma. Poi si avvicina al bambino di pochi mesi e gli bacia la fronte.
E’ tutta qui la nostra vittoria.

                                                                                                                               Domenica 11 Gennaio














mercoledì 7 gennaio 2015

Ci vediamo presto, con tenerezza.



Tenero è il sorriso dell’amico, tenero l’abbraccio della madre e della terra, tenera la notte ultima, umida di emozioni indimenticate, avvolta dall’odore del tabacco, tenera la mano stretta furtiva per la pudicizia di emozioni, tenero è l’abbraccio mai ostentato.
Le distanze e il tempo ci fanno uomini e donne, un secondo contempla mille vite e di queste ci facciamo mantello ogni giorno, ogni ora, quando il tramonto  brucia o viene l’alba e ci troviamo diversi e ci pensiamo diversi e abbiamo paura. Paura delle mille capriole possibili, paura di naufragare e non trovarsi, di arrivare in ritardo quando tutti sono andati via e rimanere alla porta, paura di partire e ritrovare mondi indecifrabili che tradurre pare impossibile.
Poi però sovviene la tenerezza e l’amore ci salva.
Chi parte con l’amore nel cuore non si perde.
A presto.

venerdì 2 gennaio 2015

La felicità.



Spesso ci sentiamo come il protagonista senza nome del romanzo di Hugo, “L’ultimo giorno di un condannato a morte”: uomini sulla soglia della condanna capitale, nell’attesa angosciosa dell’esecuzione che diventa essa stessa forca, prima ancora della pena effettiva. Ci consumiamo sotto la fiamma dell’attesa di un tempo migliore e nuovo, scavando e indagando senza sosta,  fuori e dentro di noi, per donarci la felicità o investire gli eventi della vita del significato che alla felicità medesima attribuiamo.
Ci siamo abituati e abbiamo consacrato al senso comune l’idea di articolare la vita stessa per eventi o, come spesso diciamo, momenti. E dipingiamo questi ultimi, nella mente prima e nella loro narrazione poi, con tinte fosche o allegre; ci convinciamo che sia possibile individuare e classificare insiemi definiti di pietre miliari, indipendenti e insolidali.
Ho vissuto un tempo felice, quegli anni furono meravigliosi, questo è il momento più brutto della mia vita: così ci facciamo servi della massificazione dell’esistenza.
Ogni uomo è, nel firmamento della formidabile creazione di cui siamo parte, un essere dinamico, pulsante, inarrestabile, vivo e, in quanto vivo, avvinto da un moto di perpetua e strabiliante evoluzione. Ci anima una tensione eterna al bello e al sereno che l’animo nostro riconosce quando siamo in gioiosa armonia col mondo che ci abita e che abitiamo. In ogni istante ci sono universi che meritano di essere vissuti senza categorie a tenuta stagna, senza blindare i respiri in preda ad una smania di categorizzare che è la figlia primogenita dell’uomo razionale. Forse dovremmo imparare da ciò che ciascuno di noi è stato, dall’io fanciullo che da qualche parte ancora teniamo dentro, dobbiamo essere ogni giorno fanciulli che si lasciano cullare appoggiandosi ai seni materni, fanciulli nell’attitudine alle cose della vita e, allo stesso tempo, uomini e donne del nostro tempo per pensieri ed esperienze. Dobbiamo imparare a maneggiare con mani di bimbo  le vicende che attraversiamo e spogliarle dei giudizi di valore, mai più costringerle in ordini crescenti di intensità umana: siamo e saremo ciò che eravamo insieme a quello che oggi siamo, protagonisti mai paghi della commedia della vita, comprimari del grande spettacolo dell’esistenza universale. Felici, quando abbiamo nella testa gli anni che ci è dato di vivere e nel cuore l’inesperto spirito fanciullo.
Ecco, forse si approssima all’idea di felicità l’uomo che è uomo nelle architetture della ragione e bambino nelle corde dell’animo irrazionale ma che, nello stesso tempo, sa sottrarre la ragione al suo innato impulso di categorizzazione e sa impedire all’inesperienza del fanciullo l’oblio di ciò che ciascuno di noi è stato.

Se quello che è ho scritto è vero non so dirlo, se quello che ho scritto è realizzabile non so provarlo.