lunedì 28 novembre 2011

La storia di Adele.


Adele se ne stava seduta sul muretto per cinque ore al giorno senza parlare.
Il gelo dell’inverno sulla carne le doleva come una ferita aperta. Non poteva lamentarsi, non le era consentita protesta.
Un paio di scarpe con la zeppa. Di sughero consumato.
Il vestito le arrivava al ginocchio, faceva schifo. Puzzava di fumo. Era sporco. Sudicio per colpa di quegli uomini di merda. Due sere prima un vecchio le aveva pisciato addosso.
Puzzava di piscio dalla testa ai piedi Adele. Fumo e piscio. Questa era la sua vita.

Una sigaretta sta lì a consumarsi. Sul cemento. E’fumata a metà. Il rossetto l’ha marcata.
Quando lo pneumatico passa bruscamente un’ultima scheggia rossastra fende l’aria sopra l’asfalto.

-Quanto vuoi?-
-Cosa vuoi?-
-Solito-
-Ok, pagami il solito-

Tutto è diventato solito.
Una vita brutta la sua. Adele lo sapeva ma non ci pensava troppo. Credeva che un giorno sarebbe cambiato qualcosa.
Quando aveva iniziato era poco più che ventenne. Già un figlio.
Da allora nulla era cambiato.
Fino ai sei anni Alfredo se ne era stato nella macchina di Adele ogni santo giorno.
Quel ragazzino aveva una tempra strabiliante. Restava seduto sui sedili puzzolenti della cinquecento con tra le mani uno dei giocattoli occasionali che le colleghe della madre a turno gli passavano. Restava seduto lì per le cinque ore di lavoro della mamma.
Fuori pioveva. Una volta nevicava. Un’altra ancora era grandinato.
Alfredo era rimasto avvolto in un vecchio piumone fino alle tre di notte.

Alle tre della notte Alfredo cenava con la mamma.
Una pila di panni sulla sedia. Orzo e latte scremato. Fette biscottate. Niente di più.
Lei poi andava in salotto , si toglieva le scarpe , accendeva la sua sigaretta e s’addormentava fumando. I piedi sul bracciolo del divano e lo smalto rosso scrostato delle unghie, questo si vedeva dalla cucina dove Alfredo rimaneva a mangiare. Poi s’alzava anche lui, posava la tazza. Copriva la mamma con un plaid e andava  a dormire. Alfredo aveva solo sette anni.

A mezzogiorno un terribile mal di testa le fendeva le tempie. Stordita s’alzava.
Aveva una finissima vestaglia di seta , con un grazioso colletto ricamato di pizzo fiorentino tutto insudiciato. Il bianco che sapeva di lavanda s’era fatto grigio odor tabacco.
I polsi erano consumati , quello sinistro bucato.
Alla mezza , ogni giorno, passava Susi,una vecchia collega. Ogni giorno Adele le dava la metà del ricavato della sera precedente perché lo facesse fruttare. Susi investiva per Adele.
Al bar, dietro la sala per la carambola.
Una volta cinquantamila lire erano diventate settanta. Una volta sola.
Alla sera quando le due si incontravano a lavoro Susi le rendeva quanto rimasto , trattenendo le spese per la prestazione.



***




Alle 10 Alfredo chiude la porta della sua camera.
Il pavimento è freddo. Tenta di spostarsi sul tappeto del corridoio. Fa sempre così. Da Novembre a Febbraio. Talvolta anche i primi di Marzo. Ma di solito in quei giorni fa già abbastanza caldo e allora si può camminare sulle mattonelle graffiate.
Nel salotto la stufa è ancora accesa e la puzza di gas è nauseante.
Il tepore è misto all’odore pungente dell’alcool e del vomito. Quell’odore che ti entra nelle narici per rimanerci l’intera giornata , a volte l’intera vita.
La porta è chiusa. Dentro, un vecchio vinile della Callas fa vibrare quel po’ di arredo rimasto.
Il tappeto è accartocciato.  Una sigaretta deve averne bruciate le frange durante la notte.
Adele è avvolta nella sua vestaglia. Il plaid le è scivolato. Giace sul pavimento come un grosso gatto marrone.
Alfredo lo raccoglie per coprire la mamma.
Le gambe di Adele sono ancora tanto belle.
Ogni notte , da quando aveva sette anni, Alfredo passa nel salotto per accarezzarle. S’assicura che la mamma dorma per poi andare in camera.
Quella mattina le gambe di Adele erano insolitamente fredde.
Il palmo toccava la pelle stranamente tesa, stranamente gelata. I brividi salirono su per il braccio fino alla spalla destra. Il corpo comprese prima della mente. La carne comunicò al cuore.

Il volto in un smorfia innaturale. Un ghigno di dolore si era fermato sulle labbra biancastre.
Gli occhi aperti , persi nel vuoto. Incastrata tra le dita pietrificate ,una lettera.

Amato , per sempre mio , figlio.
Nell’ultimo giorno che ho deciso di vivere mi rivolgo a te che hai saputo, più di ogni altro, nella mia brutta vita , essere sempre , con affetto, a me vicino.
Nell’ ultim’ora , nella mente ,rimane caldo il ricordo del tempo che mi fu dato prima che tu nascessi; nel ricordo di quei giorni ho vissuto gli anni che il Signore Dio m’ha concesso e che io, per l’atto che sto  compiendo , non sono più degna di pregare.
Sappi che il rimorso per le  notti che trascorresti all’addiaccio mi perseguita anche nell’ora della morte.
Della tua nascita parlammo nei momenti  in cui la mente mia non era avvolta dai fumi dell’alcool e della droga. Quelle pillole m’hanno aiutato a sopravvivere. La vita l’avevo abbandonata da tempo.
L’amata Maria accompagnerà, col suo canto, il mio ultimo respiro.
So che nessuna tua lacrima bagnerà questa carta , ciò perché sei forte e sei uomo da quando i tuoi amici erano nelle loro case tra le braccia dei padri.
So che tu hai sempre conosciuto la mia vita vera. Lo lessi nei tuoi sguardi, lo compresi dalle tue parole.
Ti comando , Alfredo, di cercare Francesca. Lei ti tenne al seno nelle notti in cui io non facevo ritorno. Ti curò. Fu per te madre e serena confidente.
Dille che l’ho amata. Sempre. Anche nelle ore più oscure , quando ci fu impedito , nei tempi più bui della mia coscienza quando il mio corpo non consentiva ragione.
Dille che…
 … prima che Alfredo nascesse ci siamo volute nel segreto delle stanze di caseggiati lontani dalle nostre dimore perché non si conveniva a famiglie borghesi,perché quelle come noi dovevano nascondersi. Fu allora, Francesca, che ti amai più di sempre.
Mai ho rimpianto d’aver abbandonato le stupidità di una  ragazza del ceto medio.
Vivemmo davvero quando lasciammo l’Italia. Fummo da allora ,per i due inverni che seguirono, una sola persona.
Quando queste mani cesseranno di scrivere, quando le braccia non si muoveranno e io giacerò esanime su questi cuscini custodirò in eterno le sensazioni che insieme vivemmo a Brixton.
Le Domeniche si rincorsero amandoci.
I mesi trascorsero nel desiderio di una vita insieme.
Non abbiamo potuto perché questo mondo ci ha volute diverse. Fummo per esso storpie  puttane.
E ora , nell’istante che precede la morte, devo, per Alfredo e per i suoi figli e per mio padre e per le donne che verranno , consegnare la mia storia a te.
Abbandona la strada. Riprenditi quel che ci tolsero e che io, per l’inettitudine mia, più non volli.
Racconta quanto fu bello baciarci,quando veniva la sera e il mondo ci conosceva diverse e fu bello nelle ore tristi e fu bello nei momenti più sereni. Racconta delle margherite che ti mandavo , racconta gli abbracci , l’amore. Dici di quando ballavamo strette l’una all’altra e fuori il vento agitava gli alberi; quando piangevamo , di notte ,davanti allo stesso libro.
Torna ,un giorno,con Alfredo a Brixton e mostragli l’albero sotto cui facemmo all’amore e digli che se anche suo padre non l’ho mai conosciuto lui fu, per noi, concepito lì.
Per te e per Alfredo vado via , perche il ricordo di quello che è stato non sia cancellato dalla mia mente non più lucida , non più viva.
Per amore, Addio.

Adele.

venerdì 25 novembre 2011

La ragazza di fronte.




La notte prima avevo sognato.
Avevo sognato tanto. Non mi capitava da un pò.
Era uno di quei sogni che ti riempiono di gioia. Uno di quelli che se anche non ricordi ti fanno stare bene. Uno di quelli che quando sei sveglio preghi il Signore di farti riaddormentare. Per continuare a sognare. Ancora un secondo. Giusto un istante di più.
Poi può cadere il mondo. Tanto non te ne fotte un cazzo. Perché tu vuoi rimanere li.
Solo col tuo sogno.

Non volevo sapere nulla di quello che accadeva là fuori. Là fuori fa freddo. Un freddo bestiale. Eppure io adoro il freddo.
Ma voglio stare qui. Nel mio letto. Mezzo stordito da un sogno dimenticato.
Ieri ho dato l'esame, mi prendo un'ora in più qui sotto.
Qualcuno dentro mi dice di alzarmi e darmi da fare. Ma è quasi Natale e che cazzo vuoi che sia un'ora in più.
Mi alzo lo stesso. Vado a zonzo per le stanze gelate.
Mi faccio un the scuro, più scuro del solito, senza una goccia di limone, tanto zucchero.
Uno , due , tre ... ma si...quattro cucchiaini. È bollente. Mi ustiono la lingua. Ma mi piace.
Mi piace sentire sotto i denti la lingua spugnosa. Dolente. Così ho di che lamentarmi. Un modo per iniziare male la giornata.

La scrivania fa più schifo del solito. C'è tempera ovunque.
Prendo il libro, segno la data e il voto dell'esame.
È un vezzo. Una di quelle cose che ti consolano e non sai neppure perchè.
Poi lo guardo. Mi prende l'acidità allo stomaco. Mi succede sempre al mattino. Alla stessa ora. Non ho capito perchè. Dovrei farmi vedere da un medico ma non mi va.
Sorseggio il the bollente. Mi dà sollievo. So che non posso continuare così ma la precarietà mi piace. Mi fa sentire sollevato, sempre. Così se qualcosa non va è colpa della precarietà. Sono i conti che non tornano. Non è mica colpa mia.

Mi siedo. La seduta è fredda. I brividi mi salgono su per la schiena.
Oggi non c'è sole. Menomale. Non faticherò a chiudere e aprire le tende.
Mi rialzo e le apro quanto basta.
Ogni giorno le apro quanto basta . Non è vero, mento. Le apro quanto basta da qualche tempo a questa parte.
Da quando quella di fronte ha deciso di stabilirsi con la sua stanza dirimpetto alla mia.
Maledetta decisione. Che stronza. Non poteva starsene dall'altro lato del condominio.
Laggiù , in culo al mondo. Non l'avrebbe vista nessuno.

Anche oggi è già lì. Le tende spalancate. Non come le mie. Le mie sono aperte quanto basta. Le sue no.
Sta alla scrivania. Come ogni mattina a quest'ora. Come ogni giorno. Da due mesi, insistentemente lì. Si è seduta prima di me.
Vorrei andare al  balcone , chiamarla e dire : “Oh stronza! Mi dici per quale fottutissimo motivo ti sei piazzata lì?”.Non lo farò mai. Ne sono certo. Intanto mi illudo che possa capitare. Forse un giorno accadrà. Spero che accada. O forse no.

Su e giù per quella stanza.
Eccola. Come sempre riempie un’enorme tazza. La posa sulla scrivania. Inizia a tamburellare con il culo della sua HB ogni giorno più piccola. A fine giornata la butterà. Oggi è venerdì. Ogni matita le dura non più di una settimana.
Tra un po’ accenderà la radio. Come volevasi dimostrare.
Come sempre si parte con Simon & Garfunkel… Hello, darkness, my old friend I've come to talk with you again.
Quanta verità. Quanta tristezza.
 Sento gli occhi umidi. Ma che faccio?Porca troia. Non posso piangere. Non sto piangendo. Sono solo lacrime. Non posso piangere.
Ecco lo sapevo. Mi tocca chiudere le tende.
Tra qualche minuto scenderà dal suo terzo piano. Inizierà a correre per l’intero isolato. Venti minuti ogni giorno.
Anche io scenderò. Come ogni giorno. Per venti minuti.
Comprerò il mio giornale. E , come sempre, provvederò ad accantonarlo. Con cura. Meticolosamente. Senza leggerne neppure un rigo.

Sono trascorsi i venti minuti d’aria.
Apro il portone. In tre secondi sono a terra. Penso di essermi rotto il naso. Grondo sangue.
La mia guancia destra è sul pavimento freddo. Come cazzo è successo!
Mi rialzo. La suola della scarpa sinistra mi ha tradito. Ho un foglio stropicciato attaccato alla punta.
E’tutto infangato ma leggibile.

-Ti va un the scuro senza limone?-
Firmato – Quella di fronte- .

Gioia infinita.