Le gelse cadevano come grandine.
Io e Alfio eravamo alle estremità opposte del lenzuolo.
Mio zio s'era arrampicato come una scimmia fino a metà fusto.
I rami ci sovrastavano.
Ricordo ancora il rumore del gelso battuto. Tre colpi , secchi. E poi il tonfo dei frutti.
E poi di nuovo il bastone contro i rami e poi di nuovo una pioggia di gelse.
Nelle settimane di Settembre fino al 1940 questa fu la nostra vita.
Quel giorno io e Alfio eravamo seduti sul divano di casa mia. Sul tavolo c’era un vassoio di paste alle mandorle. Mi sembra di sentirne ancora il profumo.
A terra , ai piedi del divano, una bottiglia di vino. Bianco.
Il vino era ghiacciato e fuori era Giugno.
Avevamo dormito solo tre ore la notte precedente. Ma , nonostante ciò, non avevamo per nulla sonno. Alle dieci di sera Alfio s’era presentato davanti alla nostra porta , prendemmo un asciugamano e salimmo sul tetto, ci stendemmo a guardare il cielo. Era buio pesto e intorno a noi il paese dove avevamo trascorso ogni ora della nostra vita era avvolto dal silenzio. Pochi rumori attutiti provenivano dal bar di Franco , sentimmo le bottiglie vuote rotolare sull’asfalto e verso la mezza il rumore della saracinesca. Poi tutto tacque.
Trascorremmo sei ore su quel tetto. Nessuno di noi due parlò molto. Forse non parlammo affatto.
Nelle settimane e negli anni che sarebbero venuti ho pensato a lungo a quella notte , all’umidità che scese sulle nostre gambe, alle case basse di San Germano, al silenzio del paese e al nostro e ho compreso , forse tardi, quanto ci fummo indispensabili.
Da allora, dopo gli eventi che si sarebbero succeduti, divenni tremendamente verboso. Volevo che il silenzio di quelle sei ore trascorse con Alfio a guardare il cielo rimanesse l’ultimo della mia vita.
Il vino era ormai finito e nel cesto rimaneva solo qualche pasta quando la bottiglia iniziò a tremare , prima impercettibilmente poi sempre più forte ,fino a quando rovinò sul pavimento in mille grossi pezzi.
Ci alzammo di scatto.
Alfio fu il primo a raggiungere il balcone. Fuori ,il cielo era invaso da uno sciame di apparecchi.
Vidi cadere sulle case più lontane , con inquietante armonia , decine di bombe.
A grappoli venivano sganciate sulle nostre abitazioni e sui nostri campi poi una nube di polvere iniziò ad avvolgere voracemente ogni cosa, raggiunse la Chiesa e la strada antistante, la piazza , l’edicola all’angolo. L’ultima cosa che vedemmo fu il nostro pezzo di cielo lasciato libero dagli apparecchi. Poi fu il buio.
A mezzo giorno uscimmo dalla camera da letto dove c’eravamo rifugiati io , Alfio, mia madre e mia sorella Maria. Tutto era coperto da una spessa coltre biancastra, la polvere ci penetrò nelle narici rendendoci impossibile il respiro. Mamma si diresse verso la credenza , cacciò quattro fazzoletti di lino con cui ci fasciammo i volti.
Quando ci riaffacciammo al balcone San Germano non esisteva più.
Solo quattro palazzi erano rimasti in piedi. Nella piazza , avvolto da una nube di polvere che sembrava foschia , giaceva il campanile del palazzo del Podestà, poco distante il bar di Franco era sventrato e così la canonica della Chiesa e il negozio di Mimì e il monumento ai caduti della guerra finita nel ’18.
Ai piedi della fontana pubblica, rimasta muta d’acqua, c’era la testa del Duce, spaccata in due parti perfettamente identiche. La colonna su cui l’avevano piazzata era rimasta inspiegabilmente integra. Questa fu una delle poche visioni confortanti di quei giorni.
Maria accese la radio, dapprima fu il silenzio. Poi , come un insperato miracolo, una voce roboante.
Solo allora capimmo.
***
Vidi mia madre per l’ultima volta nell’ottobre del ’43.
C’eravamo trasferiti nel centr’Italia. Io avevo vent’anni. Mia sorella Maria diciotto.
Andai via durante la notte.
Mamma era seduta sulla poltrona nell’ingresso, in quei due anni era terribilmente invecchiata. Non aveva più dormito in un letto. Diceva che voleva sempre essere pronta a scappare. Non temeva più gli attacchi aerei ma il rumore delle camionette. S’era convinta che un giorno o l’altro quei fascisti di merda m’avrebbero preso. E allora , ogni sera, per due anni, la vidi sgranare il rosario e baciare la Madonna. Un giorno m’aveva dato una figura della Vergine , la portai con me sempre, insieme alla foto di mio padre, a quella di Giada e quella di Alfio che non vedevo più da dalla fine del ’40.
Io e Giada ci arruolammo insieme.
Il comandante della mia formazione ci assegnò Genova. Viaggiammo per cinque giorni su un carro merci. Nascosti dietro le ceste del grano. E facemmo all’amore ogni sera. Quando veniva il buio. Ed eravamo stanchi per fare ogni cosa meno che per fare all’amore.
Se quel carro fosse stato fermato per un controllo saremmo morti entrambi, ma non ci importava, ci amavamo e questo ci bastava.
Quando arrivammo a Genova fummo divisi.
Io fui mandato non lontano dal Garda mentre Giada restò in Liguria come staffetta.
Venni accolto dai compagni del locale Cnl. Fui ribattezzato Saverio.
Le notti che si susseguirono furono terribili e piene d’angoscia. Non dormii mai nello stesso posto, temevamo imboscate notturne e ce ne furono molte.
A lungo dovetti rimanere nascosto nel sottotetto di un granaio perché una soffiata di un compagno torinese ci aveva messo all’erta. Trascorsi circa venti giorni con qualche pezzo di pane e le fettine di maiale che la gente del contadi mi portava.
Pensai tanto. Pensai a Giada che avevo visto passare su una bicicletta qualche tempo prima, pensai a mia madre e pensai ad Alfio.
Non avevo sue notizie da troppo tempo. Mi svegliavo di notte e lo immaginavo morto in un torrente.
Era andato via da San Germano senza salutarmi, piansi per ore intere. M’aveva lasciato un biglietto.
Comunque andrà, la nostra amicizia sarà per sempre.
Alfio.(Come un fratello)
In ogni paese ove sostai chiesi di lui.
Una volta una signora di Padova che mi offrì alloggio mi raccontò di un ragazzo del sud, di nome Alfio. Un ragazzo della provincia , mingherlino. Volli convincermi che fosse lui. Mi convinsi che lo era. Allora pregai ogni notte la Madonna di preservare Alfio e di farmi rincontrare Giada. Il primo desiderio rimase a lungo disatteso.
Venne l’inverno del ’44. Di quei tempi ci spostammo nelle Prealpi dove la lotta si faceva più serrata. Al contrario di quanti oggi si possa pensare , le notti furono per un po’ il momento migliore della giornata. Si stava insieme , si ballava, si beveva. E si beveva, se la memoria non m’inganna, solo vino rosso. Un compagno addetto alla spola tra le tane mi riforniva di libri. Dovevo accontentarmi di quel che passava il convento. Una volta mi portò un volumetto sulla vita di Sant’Agostino, m’appassionai tanto che non volli restituirglielo. Gli diedi in cambio quei pochi spicci che avevo in tasca perché me lo vendesse.
Poi , da un giorno all’altro, quegli intrattenimenti cessarono.
Non vidi più né vino rosso nè i canti di montagna né i libri nè le storie raccontate ad alta voce nè i balli intorno ad un braciere improvvisato.
Ci fu comandato di appostarci a Casale Sant’Erminio, l’ordine arrivò dal colonnello Croce.
Si era diffusa la notizia che la boscaglia era infestata di fascisti.
In quei giorni si videro strani movimenti nella città, molti dei nostri compagni scomparvero nel nulla. Nel gruppo del quale ero a capo non eravamo più di venti e con mezzi insufficienti.
Trascorremmo cinque notti all’addiaccio. Avevamo ricevuto ordine di non muovere passo , tenemmo notte e giorno i fucili puntati verso gli alberi. Arrivammo a convincerci che si trattasse di un falso allarme. Non era così.
Al sesto giorno fu dato ordine di avanzare divisi. Il nostro compito era di ammazzare chiunque avesse (o sembrasse avere, ciò a tanti anni da quell’inverno ancora mi sconvolge) una di quelle divise che conoscevamo bene.
Io mi diressi a Est dove la boscaglia incontrava la montagna. Procedevo con il fucile spianato e ogni venti minuti sentivo provenire , spesso anche non lontano da me, un colpo di fucile . Segno che i fascisti c’erano. Chi crepava tra noi e loro lo avremmo scoperto solo più tardi.
Nel tardo pomeriggio compresi di essere seguito.
Se pensate che in quei momenti temessi la morte vi sbagliate di grosso. Temevo la sofferenza di una tortura atroce. Quelle bestie erano capaci di tutto pur di ottenere una confessione, scovare un nascondiglio o anche solo stuprarsi una delle nostre donne. A quel punto non avrei potuto far altro che morire o mentire. Ma mentire non è mai stato nel mio stile.
Sparai tre colpi a vuoto ma non ottenni reazione alcuna.
Era quasi buio quando m’appostai dietro un grosso albero , decisi che se non avessi preso il mio inseguitore avrei trascorso lì la notte.
Poi d’improvviso un’intuizione. Imbracciai il fucile. Puntai in alto la canna. Un colpo secco.
Il mio nemico era a terra. La gamba destra ferita. Agonizzava.
Mi diressi verso di lui come una belva. Lo agguantai per una spalla e lo costrinsi contro il tronco dell’albero. Spinsi il suo volto contro la corteccia, sentii il rumore del suo naso che si rompeva.
- Chi sei? Chi è il tuo capo?
Non rispose. Ripetei la domanda.
- Ti ho chiesto chi sei! Rispondi pezzo di merda!
Gli affondai lo stivale destro nella schiena.
- Stato Nazionale Repubblicano!
Era un repubblichino. Un fottuto repubblichino.
- Sei un fascista di Salò e non hai avuto il coraggio di spararmi per l’intero pomeriggio. Siete delle larve infami.
- Non sono armato…ero appostato… ho perso la pistola…ho un binocolo-
- Come ti chiami?- Urlai.
Non ottenni risposta. Lo colpì con il calcio del mio fucile. Lo pensavo morto. Non lo era.
Passò qualche secondo poi con un sibilo mi rispose.
- Sono Alfio.-
Mollai la presa , arretrai di una decina di passi , mi si annebbiò lo sguardo, non sentii più il rumore degli spari che si erano fatti incessanti intorno a noi , non sentì il vento che agitava la boscaglia.
Lo vidi voltarsi. Riconobbi quegli occhi che mi erano stati a lungo compagni , iniziai a piangere e le lacrime si impastarono alla terra che mi copriva il viso.
Ai piedi di quell’albero c’era Alfio.
Per mesi avevo pregato la Vergine di proteggerlo, chiesto a Giada di fare un voto per lui.
Dopo quasi tre anni il mio amico era lì. Insanguinato. Con un binocolo al collo.
Ricordai la notte del Giugno del ’40. E le ore trascorse insieme e i silenzi e le botte che ci eravamo dati e gli abbracci.
Mi avvicinai. Piano.
Lo strinsi tra le mie braccia. Sentivo le sue lacrime bagnarmi il collo.
Poi mi respinse.
Lo guardai fisso negli occhi. Avevo capito quello che voleva da me.
- Fai quello che devi fare- disse.
Sentì un brivido di terrore percorrermi le membra.
- Fai quello che devi fare!- urlò.
Arretrai di nuovo. Per un minuto entrambi tacemmo guardandoci. Come quella notte , sul mio tetto nel paese di San Germano.
Mi posizionai di fronte a lui.
Alfio sorrise.
Io sparai.