Definire compiutamente le
ragioni per cui la flat tax causa importanti dubbi non è semplice, soprattutto
qui sopra. I dubbi interessano, per vero, due ambiti: quello economico e quello
giuridico ( se mi è concessa una distinzione semplicistica). In realtà i
risvolti del ripudio della progressività sono tanti e davvero molto ampi, tanto
da interpellare la scuola della sociologia fiscale.
Qui mi occupo più
specificamente dei dubbi lato sensu
giuridici. Quando avrò tempo scriverò qualcosa anche sulle perplessità
economiche che, presso molti studiosi, genera la flat tax.
Il ricorso ad un tributo
con aliquota non progressiva non è certo una novità nel dibattito politico
italiano. Appare nel discorso dei primi anni 90, sulla spinta dei venti neoliberali
che portano al potere il centrodestra. Ma allora non se ne fece nulla.
Il principio alla base
della flat tax è il ricorso ad un aliquota unica per l’imposizione sui redditi,
pur prevedendosi una serie di strumenti ( tra cui la no tax area) che
ambiscono, nelle intenzioni dei proponenti, a ridurre gli effetti distorsivi
della stessa.
Quale problema pone questo
tipo di imposizione?
Il primo, più evidente, è
il contrasto con il principio di progressività che informa il sistema
tributario italiano. Si tratta di un principio costituzionale e pertanto con
una forza passiva altissima ed una attiva molto trasversale.
Quest’ultimo è un dato
non di poco conto, infatti a differenza di altri ordinamenti (come quello
francese) in cui il Costituente non ha codificato il principio di progressività
nella Carta, il nostro lo ha fatto con tutte le implicazioni del caso. Peraltro,
la giurisprudenza costituzionale su questo punto è molto chiara.
Il ricorso all’imposizione
piatta, inoltre, contrasta con quei principi di solidarietà ed eguaglianza
sostanziale che informano le ambizioni dello Stato sociale di diritto italiano.
L’Italia è tra i primi Paesi ad essersi dotato, nella seconda metà dell’ottocento,
di un’imposta progressiva sul reddito. Il ricorso alla progressività è una
scelta di campo molto chiara compiuta dal Costituente, non negoziabile, perché espressione
di una certa idea di Stato.
L’idea che l’imposta
possa essere strumento per realizzare ambizioni di politica sociale, quali la
redistribuzione della ricchezza, l’appianamento delle diseguaglianza, la
riduzione degli scarti sociali, viene annientata dal ricorso ad un’imposta con
aliquota unica. Essa ci fa ripiombare indietro di un secolo, all’idea dello Stato
minimo ottocentesco, lo Stato che meno fa meglio è. Lo Stato che non ha
ambizione a riequilibrare le storture che la Società produce attraverso lo
strumento dell’imposta.
Viene meno, attraverso la
flat tax, l’impianto che regge ogni teoria solidaristica che, dalla fine delle
due guerre, ha guidato i paesi dell’UE. Si disconosce l’idea per cui ciascuno
viene al mondo carico di un debito nei confronti dei consociati e debba, pertanto,
partecipare al benessere di ciascuno. Si interrompe quel processo di
disindividualizzazione cui si è consacrata la Repubblica con i suoi valori.
Come si diceva prima, il
ricorso alla flat tax non è una novità, e non lo è neppure fuori dal panorama
italiano: si pensi ai paesi dell’Est Europa, che pure l’hanno via via
abbandonata. Tuttavia, la circostanza che essa sia stata adoperata proprio da
quest’ultimi non è casuale.
Lo strumento di cui
parliamo è servito da sprone, in paesi vessati da cinque decenni di egalitarismo
forsennato, per l’accumulazione del capitale di cui questi avevano bisogno. È largamente
riconosciuto che si tratta di uno strumento inadatto a sistemi caratterizzati
da un risparmio privato già molto forte, come l’Italia.
Non è un caso che la
Germania vi rinunciò all’epoca della prima Grande Coalizione all’esito delle elezioni
del 2005. Allora Angela Merkel aveva proposto in campagna elettorale una flat
tax con aliquota al 27%, questa proposta venne meno in seguito alla formazione
di un Governo trasversale. Oggi la Germania è lontana dalle posizioni di allora
e si è mostrata preoccupata dal ricorso a questo tipo di tassazione da parte
dell’Italia.
La flat tax colpisce il
cuore del Welfare State e soprattutto
il principio per cui l’utilità sociale del reddito decresce all’aumentare del
reddito stesso. In parole semplici: i contribuenti più umili usano il proprio
reddito per esigenze di prima necessità e quindi socialmente più rilevanti; i
contribuenti più abbienti godono di un reddito più alto che sarà destinato ad
esigenze meno dignitose di tutela da parte dello Stato.
Tassare egualmente le due
fasce di reddito significa avvantaggiare il ricco, sempre, qualunque tipo di
correttivo venga usato.
Il discorso è davvero
molto più ampio di quanto poche righe possano riassumere perché mette in gioco
l’idea di Stato che abbiamo, la missione che ad esso intendiamo attribuire e se
davvero vogliamo venire meno a quel patto sociale, consacrato dalla Costituzione,
che lega i principi di solidarietà ed eguaglianza sostanziale alla missione
della Repubblica. Rinunciare alla progressività mina le basi del nostro Stato
di diritto.
Ps. L’argomento mi sta
talmente tanto a cuore che se avete dubbi, incertezze o perplessità sono
disposto a prendermi un caffè ( anche se non bevo caffè) per risolverli.