Sono nato il 10 maggio 1992. Alle ore 13, 5 minuti, 24 secondi. Pesavo 3 chili e 500 grammi.
La stanza dove mia madre ha partorito era la numero 32.
Ho parlato per la prima volta a otto mesi , 15 giorni e qualche ora.
Ho detto: acqua.
Vivo da diciannove anni al numero 2 di via Roma. In un paesino del vesuviano.
9.549 anime.
Cinque anni di liceo, uno di università.
Sempre troppe soddisfazioni.
Oggi ho deciso di morire. Non so ancora come. Non ho studiato molto la cosa. Diciamo che entro stasera sarò altrove.
Muoio con una sola insoddisfazione: non assistere al mio funerale.
Ho sempre sognato di poter essere presente lì, quel giorno, nella navata, in un angolo della Chiesa (sempre che me la combinino la cerimonia dopo il suicidio). In disparte. Anzi nell’interstizio più nascosto, tra una parasta e una mezza colonna . Per osservare. Scrutare negli occhi dei presenti. Per ascoltare l’omelia del parroco, intento a raccontare una vita inesistente. Vorrei essere presente dopodomani , almeno spero che il tutto abbia termine tra due giorni, e starmene seduto ad origliare i discorsi dei presenti.
Già li immagino. Sarebbe una goduria.
Dispongo che nella mia bara ci siano accanto a me un libro di Pavese e uno di Levi , prendeteli pure dalla mia libreria. Ho scritto una breve lista, l’ho scritta a matita , come avrei voluto scrivere ogni cosa in questi diciannove anni; ho indicato i nomi delle persone a cui ho tenuto di più , a ognuno di essi corrispondono due o più libri. Fate in modo che siano loro a venire qui , nella mia camera a prenderli. Così potranno ricordare le chiacchierate e sentire ancora una volta l’odore di carta che qui dentro impregna ogni cosa, persino le pareti.
Se avessi avuto un figlio l’avrei chiamato Enrico. Se avessi avuto una figlia l’avrei chiamata Bianca. Negli ultimi tempi avverto, guardando la mia foto di bambino, un’inesprimibile serenità.
Una sensazione che d’impeto parte dallo stomaco e mi inebria, in un secondo e io non me lo aspetto e per questo mi sento felice e mi viene da cantare.
Quando sono felice mi viene da cantare. Anche ora sono felice infatti mi viene da cantare. E’la felicità di un momento che dura il tempo di una canzone di De Gregori.
Se fosse possibile vorrei che dopodomani in chiesa il coro cantasse Titanic(non quella di Celine ma di Francesco). Se proprio non la sanno , nel primo cassetto accanto alla mia scrivania c’è un cd , la terza traccia è proprio quella.
Ricordatemi come volete. Anzi se non lo fate è meglio.
Sono sicuro che qualche cosa di me rimarrà nella mente di chi c’è stato.
Dissi che per sempre sarei stato grato a chi m’ha fatto scorgere mondi che io non ho saputo esplorare, ebbene questo sarà sino all’ istante prima dell’ultimo istante che mi sarò dato, il mio più grande comandamento.
Ho sempre odiato gli inetti. Sempre.
Forse , per amore della parola, dovrei dire gli indifferenti ma parrebbe una citazione d’Altri . Insomma ho amato e amerò ,anche quando voi starete intonando Titanic , chi m’ha portato tra le pareti di una casa sconosciuta o dietro una porta rimasta socchiusa o tra le corde di una musica ignota e tra le parole di un autore dimenticato e nel mezzo di una storia che mai nessuno m’aveva narrato.
Ho vissuto questi miei anni con un solo timore. Dimenticare.
L’angoscia di non ricordare le storie , i volti e le parole che sono passate sulle mie labbra e di chi m’è stato accanto , il timore di perdere le sensazioni che ti inebriano e turbano per un istante ,mentre guardi fuori , alla finestra, mentre sei nella tua auto e oltre il vetro si muovono le strade, mentre sei seduto e hai sulle gambe l’amore, mi frustra sino all’ultimo minuto.
Dimenticavo, avrei tanto piacere se dopo la cerimonia in Chiesa potesse tenersi (anche a casa mia andrebbe bene) un banchetto, una festicciola insomma. Garbata. Non troppo sobria però. Una cosa all’americana.
Tra un po’ smetterò di scrivere. Questo mi duole.
Chiunque abbia messo per qualche ora di più la penna sul foglio ha combattuto ogni secondo contro il fantasma dell’incomprensione.
Temo l’inesprimibile. Ho temuto di rimanervi avvinghiato. Di procedere senza che fuori si capisse.
Scrivete ciò su una piccola targa laddove mi getterete, ve lo appunto a matita su un postit.
“Non di sola ragione”
Non di sola ragione ho vissuto. Ma d’emozione e passione , d’impeto e amore. Senza trasporto non esiste vita.
Un minuto, cinquantanove , cinquantotto , cinquantasette …a chi c’è stato…cinquanta… a chi verrà, a chi vorrà… quarantatrè.. non so perchè , se lo sapessi non andrei… trenta… se avessi il sentore di capire… venti… rimarrei un secondo di più… dieci, nove, otto…ma vado perché dentro dicono sia meglio così..tre, due , uno. Zero.
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