“La piccolezza dell’Europa è
figlia della sua grandezza storica”
E’
questo il conciso esordio de “La nostra Europa” scritto dal formidabile Edgar
Morin che, in maniera asciutta e agilissima, cavalca le vicende e tratteggia le
sorti del vecchio continente.
Fonte
di molte riflessioni, ha ispirato non pochi dei pensieri che seguono.
Gli
strepiti di questa campagna elettorale sono stati assordanti, gli insulti
altisonanti e i ragionamenti sull’Unione non si sono certo distinti per
profondità d’analisi.
La
verità è che, fatta salva la pace di qualcuno, la confidenza con le cose
d’Europa è davvero minima e con l’avvento degli anni 10 la produzione di un
pensiero strutturato si è fatta carente, lasciando a pochi sedicenti esperti la
possibilità di veicolare contributi con i piedi d’argilla.
La
riflessione che la giornata di silenzio elettorale agevola deve permetterci di
rispondere a due domande:
da
dove veniamo e dove vogliamo andare. Sarebbe preferibile chiedersi dove possiamo andare ma è meglio
soprassedere.
Veniamo
da un Europa che è sempre più terra di provincia, confinata alla periferia della storia, stretta tra tre blocchi: gli
USA, la potenza russa e le aree economico-politiche emergenti (per vero non più
così emergenti come, per confortarsi, si usa dire).
Il
peso specifico del vecchio continente sul piano demografico, energetico e
militare si assottiglia impietosamente; l’Unione gode di un mercato unico al suo interno ma non di
un unico mercato al suo esterno; le
molteplici forme di concertazione e politica e giuridica ne frammentano la
voce, rendendo impossibile all’interlocutore, per usare una metafora, percepire
parole di vera sintesi.
Il
punto è che in queste condizioni, o si completa l’Europa o si muore.
La
tenaglia che stringe l’Unione è asfissiante e il maggiore rischio per la
medesima è quello di una condanna all’irrilevanza. Per fare un esempio
tangibile e assai di moda: tra quindici anni non uno dei paesi europei che
siedono nel G8 oggi potrebbe sedervi ancora, neppure la Germania. Se invece ammettessimo,
cum grano salis, che i ventotto si facessero Nazione o, come suggerisce
qualcuno, meta-nazione il potere contrattuale diverrebbe enorme.
Eppure,
ancora in questa campagna elettorale gli slogan più in voga di ogni parte
politica invocavano una difesa a ranghi serrati della primazia nazionale
declinata nella molteplicità dei suoi ambiti di esplicazione.
La
domanda è spontanea: andando per questa via davvero pensiamo di arrivare
lontano?
Solo
l’uscita dagli sterili nazionalismi può consentire all’Unione di giocare un
ruolo attivo e consapevole nei processi della nuova globalizzazione.
Diversamente,
riuscite ad immaginare un tavolo negoziale a cui siedono il Ministro dello
Sviluppo economico italiano e il suo omologo cinese, impegnati a concludere
trattative per un sistema di import-export vantaggioso sia per il Bel Paese che
per la grande potenza economica? Non è forse questa la meschina e ridicola
sorte che ci attenderebbe qualora decidessimo di tornare all’amata lira (per
riferirsi ad una delle ambizioni di questa campagna), accettando un cambio
nominale per forza di cose a noi avverso?
Quale
futuro ci attende? O meglio, a quale futuro dobbiamo lavorare?
Su
questo punto la fantasiosa politica nostrana, e non solo, ha dato il meglio di
sè. Sembra, infatti, che i più abbiano dimenticato le radici di un progetto
ambizioso che ha solo pochi decenni di vita e che sfugge alle consolidate
categorizzazioni.
L’Europa
infatti, divisa sin dalla fine del secondo conflitto mondiale tra forze
centrifughe e centripete, ha scelto la
terza via, quella funzionalista.
Alla
fine della guerra Federalisti e Confederalisti si contendevano lo scalpo della
sovranità nazionale: i primi intenzionati a giustiziarla definitivamente per
giungere allo Stato europeo, i secondi interessati alla formazione di un’Europa
statuale senza però immolare l’autodeterminazione dei futuribili membri.
Nessuno
dei due movimenti riuscì ad affermarsi e in seno al primo Congresso d’Europa,
tenutosi all’Aia per iniziativa di Churchill, la voce dei funzionalisti, tra
cui Shuman e Monnet, iniziò a levarsi.
Nasceva
la via dell’integrazione settoriale,
un dispositivo giuridico e politico brillante. Si trattava di procedere a
piccoli passi, ancorando la costruzione di un’unione tra gli Stati alla
permeabilità dei settori economici prevalenti.
Insomma
l’Europa non si sarebbe unita per effetto di un’azione rivoluzionaria ed istantanea generata da una grande convenzione
costituzionale bensì per effetto di un graduale processo volto a porre le
basi di una nuova struttura istituzionale.
Le
altisonanti immagini di un’ Unione che si fa “Stati uniti d’Europa”, per quanto
futuribile, è oggi lo specchietto dietro cui celare la noluntas di procedere a sostanziali e
sostanziose cessioni di sovranità.
Quale
sarà la forma, se preferite il nomen juris, che il vecchio continente dovrà
prendere sarà la terza via a
stabilirlo.
Oggi
è necessario proseguire nel solco tracciato nel 1984 da Altiero Spinelli nel
suo Progetto (leggetevelo, è di un
avvenirismo imbarazzante) il cui fine è quello di gettare le basi per una
organizzazione politica unitaria mediante la definizione di una serie di linee
guida, in parte già interiorizzate dalla trattatistica comunitaria.
L’Europa,
dunque, deve farsi Una, superare la frammentazione generata da risalenti e
anacronistiche rivendicazioni nazionali, accettare la sfida dell’espansione
demografica aprendosi all’integrazione e, senza cedere alle sirene dei
populismi, comprendere che in costanza di paralisi e disgregazioni, come quelle
generate dalla crisi,“là dove cresce il
pericolo cresce anche ciò che salva”.
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