domenica 25 maggio 2014

Riflessioni sull'Europa.

“La piccolezza dell’Europa è figlia della sua grandezza storica”
E’ questo il conciso esordio de “La nostra Europa” scritto dal formidabile Edgar Morin che, in maniera asciutta e agilissima, cavalca le vicende e tratteggia le sorti del vecchio continente.
Fonte di molte riflessioni, ha ispirato non pochi dei pensieri che seguono.

Gli strepiti di questa campagna elettorale sono stati assordanti, gli insulti altisonanti e i ragionamenti sull’Unione non si sono certo distinti per profondità d’analisi.
La verità è che, fatta salva la pace di qualcuno, la confidenza con le cose d’Europa è davvero minima e con l’avvento degli anni 10 la produzione di un pensiero strutturato si è fatta carente, lasciando a pochi sedicenti esperti la possibilità di veicolare contributi con i piedi d’argilla.

La riflessione che la giornata di silenzio elettorale agevola deve permetterci di rispondere a due domande:
da dove veniamo e dove vogliamo andare. Sarebbe preferibile chiedersi dove possiamo andare ma è meglio soprassedere.

Veniamo da un Europa che è sempre più terra di provincia, confinata alla periferia della storia, stretta tra tre blocchi: gli USA, la potenza russa e le aree economico-politiche emergenti (per vero non più così emergenti come, per confortarsi, si usa dire).
Il peso specifico del vecchio continente sul piano demografico, energetico e militare si assottiglia impietosamente; l’Unione gode di un mercato unico al suo interno ma non di un unico mercato al suo esterno; le molteplici forme di concertazione e politica e giuridica ne frammentano la voce, rendendo impossibile all’interlocutore, per usare una metafora, percepire parole di vera sintesi.
Il punto è che in queste condizioni, o si completa l’Europa o si muore.
La tenaglia che stringe l’Unione è asfissiante e il maggiore rischio per la medesima è quello di una condanna all’irrilevanza. Per fare un esempio tangibile e assai di moda: tra quindici anni non uno dei paesi europei che siedono nel G8 oggi potrebbe sedervi ancora, neppure la Germania. Se invece ammettessimo, cum grano salis, che i ventotto si facessero Nazione o, come suggerisce qualcuno, meta-nazione il potere contrattuale diverrebbe enorme.
Eppure, ancora in questa campagna elettorale gli slogan più in voga di ogni parte politica invocavano una difesa a ranghi serrati della primazia nazionale declinata nella molteplicità dei suoi ambiti di esplicazione.
La domanda è spontanea: andando per questa via davvero pensiamo di arrivare lontano?
Solo l’uscita dagli sterili nazionalismi può consentire all’Unione di giocare un ruolo attivo e consapevole nei processi della nuova globalizzazione.
Diversamente, riuscite ad immaginare un tavolo negoziale a cui siedono il Ministro dello Sviluppo economico italiano e il suo omologo cinese, impegnati a concludere trattative per un sistema di import-export vantaggioso sia per il Bel Paese che per la grande potenza economica? Non è forse questa la meschina e ridicola sorte che ci attenderebbe qualora decidessimo di tornare all’amata lira (per riferirsi ad una delle ambizioni di questa campagna), accettando un cambio nominale per forza di cose a noi avverso?

Quale futuro ci attende? O meglio, a quale futuro dobbiamo lavorare?
Su questo punto la fantasiosa politica nostrana, e non solo, ha dato il meglio di sè. Sembra, infatti, che i più abbiano dimenticato le radici di un progetto ambizioso che ha solo pochi decenni di vita e che sfugge alle consolidate categorizzazioni.
L’Europa infatti, divisa sin dalla fine del secondo conflitto mondiale tra forze centrifughe e centripete, ha scelto la terza via, quella funzionalista.
Alla fine della guerra Federalisti e Confederalisti si contendevano lo scalpo della sovranità nazionale: i primi intenzionati a giustiziarla definitivamente per giungere allo Stato europeo, i secondi interessati alla formazione di un’Europa statuale senza però immolare l’autodeterminazione dei futuribili membri.
Nessuno dei due movimenti riuscì ad affermarsi e in seno al primo Congresso d’Europa, tenutosi all’Aia per iniziativa di Churchill, la voce dei funzionalisti, tra cui Shuman e Monnet, iniziò a levarsi.
Nasceva la via dell’integrazione settoriale, un dispositivo giuridico e politico brillante. Si trattava di procedere a piccoli passi, ancorando la costruzione di un’unione tra gli Stati alla permeabilità dei settori economici prevalenti.
Insomma l’Europa non si sarebbe unita per effetto di un’azione rivoluzionaria ed istantanea generata da una grande convenzione costituzionale bensì per effetto di un graduale processo volto a porre le basi di una nuova struttura istituzionale.
Le altisonanti immagini di un’ Unione che si fa “Stati uniti d’Europa”, per quanto futuribile, è oggi lo specchietto dietro cui celare la noluntas di procedere a sostanziali e sostanziose cessioni di sovranità.
Quale sarà la forma, se preferite il nomen juris, che il vecchio continente dovrà prendere sarà la terza via a stabilirlo.
Oggi è necessario proseguire nel solco tracciato nel 1984 da Altiero Spinelli nel suo Progetto (leggetevelo, è di un avvenirismo imbarazzante) il cui fine è quello di gettare le basi per una organizzazione politica unitaria mediante la definizione di una serie di linee guida, in parte già interiorizzate dalla trattatistica comunitaria.

L’Europa, dunque, deve farsi Una, superare la frammentazione generata da risalenti e anacronistiche rivendicazioni nazionali, accettare la sfida dell’espansione demografica aprendosi all’integrazione e, senza cedere alle sirene dei populismi, comprendere che in costanza di paralisi e disgregazioni, come quelle generate dalla crisi,“là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”.


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