A chi , con affetto, ha sollecitato il mio ritorno alla scrittura.
Ernesto stava seduto al tavolino. Sfumacchiava da mattina a sera. Il fumo gli entrava nei capelli e nei pensieri che sapevano di tabacco.
Scriveva le sue storie da mattina a sera , davanti a un caffè .
Amelia era una cameriera , bellissima. Portava i capelli raccolti in un tuppo, riuniti da tre forcine. Una camicetta di seta bianca. Un filo di perle .La carne rosa e le guance di ciliegia.
Al tavolino del caffè passava il mondo. Ernesto trascorreva le sue giornate a guardare e ascoltare.
Quando Amelia posava il grembiule , Ernesto la scrutava da capo a piedi e ad Amelia piaceva. Alle sette di sera , quando l’ultimo sole avvolgeva Firenze , Ernesto posava la penna e beveva il caffè. Prendeva la sua cameriera sotto braccio e passeggiavano fino a che le gambe glielo concedevano , fino a che le ginocchia di Amelia non chiedevano riposo. Lei lo portava a sè come la madre stringe il figlio e lui ne sentiva il profumo mentre le vibrazioni del suo corpo scrivevano poesie.
Quando rincasava , Ernesto trovava la sua macchina per scrivere e il suo giradischi.
Preparava la cena.
A mezza notte l’ultimo caffè. Poi Ernesto suonava la sua macchina per scrivere. Mentre il giradischi cantava.
E di fronte Firenze e San Frediano e nient’altro. Perché niente esiste al di fuori di Firenze , il mondo è nella mente di Ernesto.
Alle quattro apriva le finestre perché uscisse il fumo del sigaro e andava a letto. Con i vestiti del giorno, con la puzza del suo sudore, con la polvere tra i capelli e la barba incolta che graffiava il cuscino ingiallito.
Alla mattina presto Amelia passava fori casa sua e da tre anni gli lasciava una mezza bottiglia di latte, una brioche e una manciata di sigari. Ernesto la scrutava dalla sua finestra e appena la cameriera svoltava l’angolo lui si precipitava in strada.
Questa era la vita di Ernesto , dopo un matrimonio finito male,dopo una vita di soddisfazioni aveva scelto tre cose: il caffè , la macchina da scrivere e i sigari. E una donna soltanto : Amelia.
D’estate , quando Firenze lo concedeva, avevano scopato nelle traverse di San Frediano, nella puzza di piscio , tra le mura umidicce , in mezzo ai gatti, una volta su un muretto, un’altra tra le scatole di un negozio di bottoni, un’altra ancora sulla scala della chiesetta di San Bartolomeo.
Sette anni prima Ernesto aveva capito che quella tra le sue mani non era la vita che voleva. L’aveva capito rincasando . Aveva trovato il piatto in tavola, i figli seduti ad aspettarlo , la moglie sotto l’arco della porta. Aveva posato il soprabito, aveva allentato la cravatta per mangiare la minestra. E i ragazzi gli parlavano della scuola e la moglie delle amiche e la suocera del cucito. Poi s’era alzato per andare al bagno e , nel suo studio, sulla scrivania c’era un enorme lampada liberty.
Non c’era più spazio per la sua macchina da scrivere. Ora giaceva incartata , in uno scatolo.
Aveva ripreso il soprabito ed era sceso .Al tavolino d’un bar aveva ritrovato la vita.
Non c’è altra vita che quella che ti costruisci, non c’è altro amore al di fuori di quello che cerchi .
Seduto al tavolino d’un bar siede Ernesto, con il suo caffè , il suo sigaro e la sua penna. E poi c’è Amelia con la quale fa all’amore e che ogni mattina gli porta il latte.
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