Mi ricordo i falò d’estate. Mi ricordo il rumore del legno scoppiettante e le scintille che si disperdono nell’aria di fuliggine come fuochi d’artificio. Il vino , le risate e le mani di mia madre.
I rami a mezz’aria e le lampadine di fortuna, il cielo di campagna e le nuvole dei primi di settembre.
Mi ricordo un bacio e le braccia fredde perché alle sette scende l’umido.
Mi ricordo che a diciotto anni mi portarono a fare il vestito per il matrimonio. Il mio.
A ventidue anni avevo Piero e Sara, una casa a Napoli e una vita davanti.
Quando mio marito Antonio è morto di tumore mi sono licenziata dall’impiego di moglie borghese e ho iniziato a lavorare in fabbrica , ero addetta all’incollaggio delle ceramiche poi la colla ha iniziato a farmi le mani a pezzi.
Madre di due creature a ventidue anni e vedova un anno dopo. L’Italia di allora non conosceva destino peggiore.
Dopo il licenziamento iniziai a lavorare come governante in una casa di corso Vittorio Emanuele , la paga era più che dignitosa. Alla sera rincasavo e pensavo ad Antonio.
Non avevo studiato molto , dopo la quinta elementare dovevo trovare da mangiare per i miei fratelli, ma avevo saputo rimediare. M’ero appassionata alla lettura , leggevo ovunque qualunque cosa e leggendo trascorrevo le mie serate.
Quando le sirene suonavano prendevo Sara in braccio , Piero rimaneva attaccato alla gamba e così, come un grumo informe , avanzavamo a passi lunghi verso il ricovero. Non eravamo niente più di grumo. Un grumo d’affetto e amore , indistinto e inarrivabile per gli altri, nessuno poteva comprenderci o solo avvicinarsi al nostro mondo, ci eravamo indispensabili perché soli. Dopo la morte di Antonio non m’ero più legata ad alcuno, era la giovinezza , il troppo amore per quell’uomo, erano Sara e Piero, era la guerra.
A ventiquattro anni inaugurai la mia terza vita. Avevo sentito parlare di un’Italia diversa e combattente dal centro al nord. Nei miei libri gli eroi mi portavano agli anni dell’infanzia mentre al seno allattavo Sara. E lei dal mio latte prendeva tutto , dalla mia carne le veniva il nutrimento delle viscere e della mente, la feci feconda , fertile ai pensieri di libertà che non ebbi tempo d’insegnarle. Infatti abbandonai Napoli. Lasciai i bambini a mia sorella, piangevo e tremavo insieme perché quel grumo s’era sfaldato, sentivo il petto lacerato, spaccato in due parti.
Partivo per la Resistenza. Una terra lontana.
Nella mia mente la Resistenza s’era materializzata sin dal principio nell’immagine di una landa , popolata da cespugli bassi, da polvere e soldati. Non ero una sprovveduta, non lo sono mai stata, la vita m’aveva serbato mille insegnamenti , ogni giorno e ogni ora, ma non ero mai andata fuori dalla mia città, come quasi tutti i napoletani di quegli anni. Tuttavia le riunioni con Alfredo, Rita , Franco e gli altri m’avevano portato in un’Italia diversa di uomini e donne combattenti e io ritenni d’avere la tempra giusta per unirmi a loro. Allora mi fecero piemontese e risorsi col nome di Carla.
Ero una partigiana. Ma questo lo appresi solo qualche anno dopo.
Sull’Appennino e sulle Alpi, nelle campagne di notte, all’ombra di frutteti sconosciuti combattevo il Nemico. Mi facevo eroina dei romanzi che avevo letto; io , una vedova, madre a vent’anni combattente per un popolo che non conoscevo ma amavo. Quanta ingenua franchezza , quanta meraviglia riscopro nei sogni di quelle notti. Consacravo i miei giorni all’amore e a Sara.
Quelle poche volte che mi fu concesso l’onore di fucilare uno di quelli, pensavo a Sara e le dedicavo il primo colpo e a Piero il secondo.
Nei primi tempi odoravo ancora di madre, odore dolce di fiori e di miele che sopperì all’odore acre del sangue e della morte. Uccisi la prima volta quando avevo ancora il latte nel seno. Mai smisi di leggere.
Col tempo compresi quanto grande fosse quella nostra impresa.
Le compagne e i compagni, il sangue, l’amore , i canti e l’inesprimibile gioia che mi derivava dall’avanzata , un metro di terra in più era un giorno in meno di oppressione ; avevamo la convinzione profonda di rifare il Paese.
In Guerra ero rinata e se fosse stato necessario avrei accettato di morirvi, ero arrivata alla mia terza vita da borghese decaduta , sola nel mio grumo mi ero nutrita dell’amore per i figli , uscivo dai combattimenti vincitrice. Da ognuno di essi.
Avevo vinto la mia guerra contro la solitudine , lo avevo fatto abbandonando per tre anni i miei figli, la sola ancora al mondo dell’anima e degli affetti, ma sapevo di fare la scelta giusta; ho combattuto la guerra contro il Nemico per loro e per tutti gli altri figli, quelli a cui non ho dato il mio latte ma ai quali rivolsi sempre il pensiero nelle notti di tregua.
Ci chiamano eroi della Resistenza. Quando mi chiedono perché lo feci, perché abbandonai due creature e il tepore di una casa certa io rispondo sempre che avevo il dovere di farlo.
Nelle riunioni clandestine , dai giornali che non si vendevano e dalle radio che non esistevano scoprii un terra nuova. Sapevo che un paese nuovo stava nascendo , non potevo nascondermi.
Non si può conoscere e non agire, la conoscenza è un dono come è un dono l’amore, eppure entrambi implicano la sofferenza . Chi accetta di non amare pur di non soffrire? Solo gli stolti e gli sconfitti.
I primi sono perduti i secondi possono decidere di rialzarsi, sempre , ogni giorno. Io lo feci.
La sofferenza fu una benedizione per me , i miei bambini e la mia gente. Mi restituì all’amore per essi, un amore nuovo , meritato e pieno.
Oggi guardo la mia terra , i figli dei miei figli e si gonfiano gli occhi di pianto.
Tutto mi pare vano ma dentro, sotto queste vesti e sotto questa carne il cuore non ignora la natura menzognera dei miei pensieri.
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