Il primo giorno del quarto ginnasio Hank ha preso posto nell’angolo , nel punto più estremo dell’aula, quello più distante dalla porta d’ingresso.
Si è incastonato lì, tra il banco , il muro e la finestra. Lì ha scovato il suo mondo. Se ne sta seduto con le gambe serrate in alto , fin sotto la superficie di lavoro; le braccia affusolate rimangono incollate ai polpacci.
Parla poco Hank. Si e no quattro discorsi compiuti in due anni. Gli occhi non stanno mai fermi, mendicano in giro per l’aula storie con cui intrattenersi; una penna abbandonata o una scrittura fresca possono scatenare abissi di riflessioni imperscrutabili.
Hanno imparato a non dargli a parlare e lui ne è contento, odia le false cortesie ; per qualche mese tutti si erano esercitati in uno sport estremo : capire Hank. A lui non interessava e per reazione si faceva più indecifrabile.
Era nato alla fine degli anni ottanta , in una cittadina della provincia, in quella realtà di famiglie sfacciatamente ricche e sfacciatamente conformiste. Due sole scariche di adrenalina avevano percorso la schiena di sua madre nel corso della sua esistenza: la prima quando aveva sposato il padre di Hank, il più grande affare mai concluso da mezzo secolo a quella parte dalla sua famiglia, e la seconda quando aveva deciso di chiamare suo figlio con un nome americano.
Si è incastonato lì, tra il banco , il muro e la finestra. Lì ha scovato il suo mondo. Se ne sta seduto con le gambe serrate in alto , fin sotto la superficie di lavoro; le braccia affusolate rimangono incollate ai polpacci.
Parla poco Hank. Si e no quattro discorsi compiuti in due anni. Gli occhi non stanno mai fermi, mendicano in giro per l’aula storie con cui intrattenersi; una penna abbandonata o una scrittura fresca possono scatenare abissi di riflessioni imperscrutabili.
Hanno imparato a non dargli a parlare e lui ne è contento, odia le false cortesie ; per qualche mese tutti si erano esercitati in uno sport estremo : capire Hank. A lui non interessava e per reazione si faceva più indecifrabile.
Era nato alla fine degli anni ottanta , in una cittadina della provincia, in quella realtà di famiglie sfacciatamente ricche e sfacciatamente conformiste. Due sole scariche di adrenalina avevano percorso la schiena di sua madre nel corso della sua esistenza: la prima quando aveva sposato il padre di Hank, il più grande affare mai concluso da mezzo secolo a quella parte dalla sua famiglia, e la seconda quando aveva deciso di chiamare suo figlio con un nome americano.
Fa sera presto , da Settembre fa sera presto. Ma è meglio così, quando il sole se ne va tutti sono meno disposti a romperti il cazzo, perché è sera e pensano a domani. Quando il sole se ne va, Hank si chiude in camera.
Stasera fa freddo e la condensa conquista i vetri, sulla scrivania , sotto la lampada volteggiano gli ultimi fumi di una mezza Malboro. Le gambe accavallate rimangono quasi annodate sul cuscino della poltrona , sotto il peso della chitarra , ma questo mezzo dolore gli provoca improvvise scariche di adrenalina. Hank si unisce al legno e alle corde e rinasce.
E’ un mai nato, uno di quelli che il mondo ha scansato girando le spalle, uno di quelli che incontri per strada e non vedi . E’arrivato a sentirsi un feto , un aborto malauguratamente resuscitato.
Poi per fortuna il giorno finisce e lui può tornare embrione. Con la sua musica , tra migliaia di vibrazioni.
Recupera la sigaretta e si avvicina alla finestra , sente il fumo attraversargli la bocca e poi il petto. Espira e in un ultima boccata se ne vanno i pensieri vecchi e la mente accoglie i nuovi nati ; nati dal fumo e dalla musica.
I cinque anni di liceo sono volati, come l’ultima evoluzione del tiro che conclude la giornata, si sono disintegrati nella sua mente, se li è portati via la rabbia. Poi è venuta l’università , la cresima della vita borghese, la conferma dovuta di un figlio della buona società .
Dopo le superiori sarebbe voluto scappare, magari dopo la maturità, avrebbe fatto in tempo ma non c’è riuscito , è rimasto incastrato con un piede tra i banchi e uno, sempre, nel suo mondo.
Una sera suo padre l’ha preso per un braccio e l’ha costretto a sedere, non era mai accaduto prima , non si erano mai guardati negli occhi e se qualcuno glielo avesse chiesto non avrebbe saputo neppure rispondere di che colore fossero quelli di suo padre. Quella sera gli chiese il conto.
Al padre di Hank bastava una vita media, come era stata la sua e quella di suo padre e ancora quella di suo nonno. Lui doveva solo pensare a finire gli studi, all’impiego avrebbe provveduto lui.
Hank annuì e tornò alle sue sere.
Guarda fisso fuori , oltre il vetro e pensa alle ultime settimane. Si sente un mendicante ,
vorrebbe essere nato altrove e in un altro tempo. Ha dall’età di dieci anni maledetto il suo nome, da allora , a chiunque gli chieda per quale motivo se ne sta abbandonato come una merda qualunque, dimenticata da Dio e dagli uomini , lui risponde che non ha nulla contro il Creatore , bensì ha , da sempre, una naturale avversità contro gli esseri umani. Proprio come Kurt che ogni sera gli tiene compagnia.
Quando l’ultimo rito della giornata si è compiuto si dirige verso il letto, freddo.
Si stende, il bianco del soffitto cede al nero delle palpebre serrate, pensa alle elemosine rifiutate mentre il sapore della sigaretta si dissolve tra la lingua e il palato e insieme ad esso si dissolve un ultimo pensiero: Francesca.
Forse , un appiglio.
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