Sono seduto nella prima carrozza dell’intercity che da Parigi mi porta
a Clermont.
Sono atterrato questa mattina in una Francia diversa da quella che mi
aveva salutato prima della pausa natalizia. All’ingresso di Orly Sud l’albero
di Natale ancora scintilla, decorazioni abbondanti pendono a ogni angolo dell’aeroporto
ma nulla odora di festa.
Le Monde titola: “Le 11 semptembre français”. E’ così? Si tratta sicuramente
una lettura di pancia e come tale inizia ad essere metabolizzata e si sta
evolvendo in una visione più scandagliata dei fatti . Li hanno, ci hanno
colpiti al cuore come accadde quasi quindici anni fa a Ground Zero. Hanno
ferito la Francia e insieme l’Europa intera, tutti gli uomini e le donne di
buona volontà della nostra Europa hanno perso un pezzo d’anima, cullato e
cresciuto nel sogno di pace e prosperità che la mia generazione ha ricevuto in
dono da quella che all’Europa unita aveva dato vita.
Forse era inevitabile che prima o poi accadesse, dicendola con Morin,
per la natura di frontiera del nostro continente. Una ventina di anni fa sul
confine dello scontro a freddo tra il blocco americano e quello russo, oggi,
nell’incomprensione dei più, avvitata nell’architrave di una guerra santa senza
frontiere e con infiniti campi di battaglia, tangibili e non.
Giovedi 8 Gennaio
Io e Katia siamo incollati alla televisione, l’emotività che impregna
ogni cosa fa lo stesso con noi. Ci sentiamo rapiti, assorti, ipnotizzati. E’ l’ipnosi
del male.
Tele France trasmette su tutte le reti ininterrottamente da stamattina
le operazioni delle teste di cuoio francesi. I fratelli Kouachi si sono
asserragliati (sembra) in una tipografia a conduzione familiare di una
cittadina a Nord di Parigi (sembra) e hanno degli ostaggi (sembra). A porte de
Vincennes, in un’ epicerie ebraica, Coulibaly fa barricate, minaccia di
ammazzare gli avventori del supermercato che, loro malgrado, sono ora i
destinatari dei pensieri del mondo.
E’ un pomeriggio lunghissimo qui in Francia, le ore sono dilatate,
tutto è sospeso. Nelle strade camminano in pochi, la televisione del vicino di
pianerottolo fa eco alla nostra. Alla finestra, lo striscione su cui campeggia
un “Nous sommes Charlie”, tratteggiato a caratteri cubitali, è travolto dalle
folate di vento freddo.
Poi l’epilogo improvviso. I corrispondenti delle testate
giornalistiche tacciono, le immagini invadono lo schermo: è guerra bella e
buona, lì a qualche chilometro dalle nostre case, nel cuore della nostra
Francia e dell’Europa intera. Granate e raffiche di mitra, colpi sparati di
fila da mille uomini vestiti di nero immersi in una coltre di fumo. Katia si
porta le ginocchia al mento. Hanno ammazzato i fratelli Kouachi; pochi minuti
dopo è la volta di Coulibaly.
Ci fanno vedere tutto e forse è giusto così, il pudore non ha spazio
nella guerra anche mediatica e forse è giusto così.
L’uomo imbraccia un arma che mi pare enorme e che non sono capace di
identificare, si lancia attraverso la porta del supermarché Cacher, sembra
rimanere sospeso a mezz’aria per qualche secondo, fino a quando ogni parte di
quella massa indistinta che è il suo corpo, fasciato da abiti neri, è
attraversata da una tempesta di proiettili. Precipita al suolo.
Ci guardiamo negli occhi, io e Katia, e torniamo a respirare.
Una sensazione di serenità mi attraversa, come un antidolorifico che
inizia a produrre i suoi effetti nelle membra, sento che essa mi pervade e
cerco di punirmi per questo ma non ci riesco e forse, in realtà, non lo voglio
neppure.
Venerdì 9 Gennaio
Chi può sale sulle panchine, qualcuno si arrampica sugli alberi, i
bambini sono sulle spalle dei loro papà, i carrozzini condotti da madri
pazienti si fanno strada e nessuno protesta per questo, una folla fitta di
cartelli e giornali è agitata sopra la marea di teste e cappelli, applausi e
canti improvvisati partono da ogni angolo, si canta la Marsigliese, si urla
insieme e si porta il tempo col battito delle mani, siamo migliaia, milioni.
Marciamo insieme per ore, lentamente. Chiedo a Marika se lo avremmo
fatto anche noi in Italia ma poco importa. Sono europeo e, credetemi, è un
sentimento di amore e appartenenza che non ho mai messo in discussione, ma
oggi, in mezzo a tutta questa gente di ogni età e di ogni provenienza, la
vocazione alla libertà di cui la nostra storia ci investe, nel mezzo dell’umanità,
mi pare eterna e invincibile.
Un uomo sulla sessantina è stretto tra noi e una famiglia con un bimbo
di pochi mesi, ha gli occhi raggianti quest’uomo. Viene dall’Algeria e mostra
con un ampio gesto del braccio due donne col capo coperto dal velo, forse la
moglie e la figlia, così raccomandano le fattezze dei loro volti.
“Siamo musulmani”, dice, “e quello che è accaduto non c’entra nulla
con la nostra religione”.
“Non sono francese, ma sono fiero di essere qui, in Francia”, ripete
con voce ferma. Poi si avvicina al bambino di pochi mesi e gli bacia la fronte.
E’ tutta qui la nostra vittoria.
Domenica 11 Gennaio
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