lunedì 12 gennaio 2015

La fragilità del terrore: pagine di diario dei tre giorni più lunghi di Francia.



Sono seduto nella prima carrozza dell’intercity che da Parigi mi porta a Clermont.
Sono atterrato questa mattina in una Francia diversa da quella che mi aveva salutato prima della pausa natalizia. All’ingresso di Orly Sud l’albero di Natale ancora scintilla, decorazioni abbondanti pendono a ogni angolo dell’aeroporto ma nulla odora di festa.
Le Monde titola: “Le 11 semptembre français”. E’ così? Si tratta sicuramente una lettura di pancia e come tale inizia ad essere metabolizzata e si sta evolvendo in una visione più scandagliata dei fatti . Li hanno, ci hanno colpiti al cuore come accadde quasi quindici anni fa a Ground Zero. Hanno ferito la Francia e insieme l’Europa intera, tutti gli uomini e le donne di buona volontà della nostra Europa hanno perso un pezzo d’anima, cullato e cresciuto nel sogno di pace e prosperità che la mia generazione ha ricevuto in dono da quella che all’Europa unita aveva dato vita.
Forse era inevitabile che prima o poi accadesse, dicendola con Morin, per la natura di frontiera del nostro continente. Una ventina di anni fa sul confine dello scontro a freddo tra il blocco americano e quello russo, oggi, nell’incomprensione dei più, avvitata nell’architrave di una guerra santa senza frontiere e con infiniti campi di battaglia, tangibili e non.

                                                                                                                                    Giovedi 8 Gennaio

Io e Katia siamo incollati alla televisione, l’emotività che impregna ogni cosa fa lo stesso con noi. Ci sentiamo rapiti, assorti, ipnotizzati. E’ l’ipnosi del male.
Tele France trasmette su tutte le reti ininterrottamente da stamattina le operazioni delle teste di cuoio francesi. I fratelli Kouachi si sono asserragliati (sembra) in una tipografia a conduzione familiare di una cittadina a Nord di Parigi (sembra) e hanno degli ostaggi (sembra). A porte de Vincennes, in un’ epicerie ebraica, Coulibaly fa barricate, minaccia di ammazzare gli avventori del supermercato che, loro malgrado, sono ora i destinatari dei pensieri del mondo.
E’ un pomeriggio lunghissimo qui in Francia, le ore sono dilatate, tutto è sospeso. Nelle strade camminano in pochi, la televisione del vicino di pianerottolo fa eco alla nostra. Alla finestra, lo striscione su cui campeggia un “Nous sommes Charlie”, tratteggiato a caratteri cubitali, è travolto dalle folate di vento freddo.
Poi l’epilogo improvviso. I corrispondenti delle testate giornalistiche tacciono, le immagini invadono lo schermo: è guerra bella e buona, lì a qualche chilometro dalle nostre case, nel cuore della nostra Francia e dell’Europa intera. Granate e raffiche di mitra, colpi sparati di fila da mille uomini vestiti di nero immersi in una coltre di fumo. Katia si porta le ginocchia al mento. Hanno ammazzato i fratelli Kouachi; pochi minuti dopo è la volta di Coulibaly.
Ci fanno vedere tutto e forse è giusto così, il pudore non ha spazio nella guerra anche mediatica e forse è giusto così.
L’uomo imbraccia un arma che mi pare enorme e che non sono capace di identificare, si lancia attraverso la porta del supermarché Cacher, sembra rimanere sospeso a mezz’aria per qualche secondo, fino a quando ogni parte di quella massa indistinta che è il suo corpo, fasciato da abiti neri, è attraversata da una tempesta di proiettili. Precipita al suolo.
Ci guardiamo negli occhi, io e Katia, e torniamo a respirare.
Una sensazione di serenità mi attraversa, come un antidolorifico che inizia a produrre i suoi effetti nelle membra, sento che essa mi pervade e cerco di punirmi per questo ma non ci riesco e forse, in realtà, non lo voglio neppure.

                                                                                                                                     Venerdì 9 Gennaio

Chi può sale sulle panchine, qualcuno si arrampica sugli alberi, i bambini sono sulle spalle dei loro papà, i carrozzini condotti da madri pazienti si fanno strada e nessuno protesta per questo, una folla fitta di cartelli e giornali è agitata sopra la marea di teste e cappelli, applausi e canti improvvisati partono da ogni angolo, si canta la Marsigliese, si urla insieme e si porta il tempo col battito delle mani, siamo migliaia, milioni.
Marciamo insieme per ore, lentamente. Chiedo a Marika se lo avremmo fatto anche noi in Italia ma poco importa. Sono europeo e, credetemi, è un sentimento di amore e appartenenza che non ho mai messo in discussione, ma oggi, in mezzo a tutta questa gente di ogni età e di ogni provenienza, la vocazione alla libertà di cui la nostra storia ci investe, nel mezzo dell’umanità, mi pare eterna e invincibile.
Un uomo sulla sessantina è stretto tra noi e una famiglia con un bimbo di pochi mesi, ha gli occhi raggianti quest’uomo. Viene dall’Algeria e mostra con un ampio gesto del braccio due donne col capo coperto dal velo, forse la moglie e la figlia, così raccomandano le fattezze dei loro volti.
“Siamo musulmani”, dice, “e quello che è accaduto non c’entra nulla con la nostra religione”.
“Non sono francese, ma sono fiero di essere qui, in Francia”, ripete con voce ferma. Poi si avvicina al bambino di pochi mesi e gli bacia la fronte.
E’ tutta qui la nostra vittoria.

                                                                                                                               Domenica 11 Gennaio














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