lunedì 27 dicembre 2010

Storie d'adolescenza.L'amore.

Avevo diciotto anni, bho forse li ho ancora, bho forse non li ho mai avuti.
Era Agosto, uno degli ultimi giorni di un Agosto bellissimo, non faceva più così caldo come nei giorni precedenti, sembrava che stesse venendo l’autunno , ma era troppo presto perché venisse, forse faceva solo più fresco. Avevo avuto la febbre per una settimana, era stato terribile , non l’avevo avuta mai così alta,quella febbre era stato il suggello di un’estate già rovente.
Ogni storia d’amore ha due protagonisti , questa ne ha di più ,tanti confidenti veri o presunti, tanti impiccioni, di questi …pochi presunti .
Il mio primo ricordo è lontano, tanto ma non troppo. Risale al periodo in cui al cinema avevano da poco smesso di dare Baaria, quel bel film di Tornatore ; una sera uscivamo dalla sala e sentii per la prima volta parlare di Bob, il soprannome non era familiare, rievocava un cane , un animale di compagnia se non qualcosa di simile, insomma stuzzicava la mia civetteria , e io , come è noto di civetteria ne ho tanta, qualcuna la chiama caperaggine ma il lettore d’ora in poi la conoscerà come civetteria.Quella sera c’era vento, io m’avvolgevo il bavero del cappotto , indossavo quello nero abbastanza elegante, continuavo a chiedermi chi fosse quello di cui stessero parlando Francesca , la ciucciuettola del gruppo, e la graziosa Gaia, confidente di una vita di Chiara, la protagonista femminile. Come al solito a stuzzicare
la mia voglia di conoscere fu Francesca, per quello strano meccanismo che porta la gente che
non vuol far sapere a fare in modo che gli altri sappiano e anche più velocemente.
Naturalmente avevo capito che a poco sarebbe valso insistere per conoscere l’identità che mi
nascondevano, m’avrebbero raccontato solo invenzioni, io lo capii e iniziai a minacciare.
(dimenticavo di riferire al lettore che in questa storia ci sarà , talora, in modo evanescente
la presenza d’una figura , non troppo definita , ciò per il suo carattere, bè sappia il mio
lettore che il suo nome è Roberta).

Le mie insistenze e di pari passo le minacce si facevano ben maggiori di giorno in giorno,
compresi che era necessario iniziare ad indagare da solo, ma presto avrei capito che cercavo
troppo oltre , che la sorpresa, mi passerete il termine , la tenevo sotto il naso. La fantasia
andava lontana, le pensai tutte, amici della sorella di Francesca, bei fusti di altre classi,
qualche mezzo fusto della nostra , la civetteria che mi appartiene mi portò a pensare a me
medesimo, ma solo per pochi secondi , poi allontanai subito il tetro calice. L’occasione
arrivò il sabato pomeriggio, giorno in cui ero solito tenere le lezioni di latino , quel
pomeriggio era il turno di Chiara, lei arrivò puntuale come sempre e io scocciato come sempre
iniziai a spiegare qualche inutile argomento di grammatica misto alla bella letteratura
classica, ma già avevo ordito le trame, mentre lei scriveva io impugnai il cellulare , il suo,
e inviai a Gaia un messaggio che aveva in parentesi, ora non ricordo se fosse più
semplicemente distaccata dal resto una E iniziale di Ernesto, insomma accesi la miccia e
aspettai che mi portasse alla bomba. Sempre per quel principio secondo il quale è la gente a
portarti per mano a ciò che vuole nascondere compresi dagli atteggiamenti che Bob era Ernesto.
Ma la dichiarazione plateale avvenne la sera del compleanno di Gaia, or bene , quella sera il
compagno Bella, con la nota bonaria spavalderia, fece il nome di Ernesto e vicino quello di
Chiara…apriti cielo…ero stato io ad aver messo in subbuglio l’ordine di Bengodi, ero stato io
l’informatore .Il lettore confiderà nella bontà di chi ora regge la penna , e crederà , voglio
sperarlo, che dalla mia bocca non partì nulla per arrivare a quella del beneamato Bella.
Insomma da quella sera si seppe e se già prima si sapeva fu manifesto e se già lo era
almeno demmo spettacolo.
Come è noto spesso accade che il tempo passa e noi lo facciam passare tentando di mettere la
polvere sotto il tappeto e sistemando le bomboniere dei matrimoni passati, e fu così che tra
smentite continue, noncuranze reciproche , a mio dire …mai vere del tutto, qualche mese passò,
ma l’ardore si sa , quello la polvere non lo appanna e le bomboniere non lo appesantiscono.
Senza dubbio uno degli elementi che più di ogni altri hanno contribuito al nascere e
all’evolversi di questa storia furono i video che eravamo soliti realizzare per i compleanni
della maggiore età; lettore mio mi concederai qui un nuovo momento di civetteria casareccia,
di bonaria rivendicazione, che fa sì ch’io possa dire d’aver un merito in questa querelle
amorosa, ovvero …anche il video fu galeotto. Insomma ore ed ore trascorse a montare , girare,
dirigere…capirà il mio lettore che furono quelle ore ben spese per l’economia della patria
nostra.
Il quinto anno di liceo è senza dubbio stato uno dei più faticosi e quindi più impegnati , in
verità nessuno dei due protagonisti si è mai lasciato prendere dagli impegni di matrice
scolastica con tanto coinvolgimento, tuttavia i mesi trascorrevano tra un compito, un gruppo
di matematica, mezzo di latino e trecento pagine di italiano alla volta, poi venne Praga.
Ogni viaggio è una scoperta , e questo lo fu in tanti sensi , per molti sensi.
Partimmo in marzo, o almeno così ricordo , raggiungemmo la città in pullman ma questo al
lettore poco interessa perché durante il tragitto il protagonista nostro tenne più all’amore
del compagno di sempre, Giovanni, che a quello di Chiara, per la verità fino ad ora
spasimante, nemmeno tanto velata, nemmeno tanto ricambiata, e forse nemmeno tanto.
L’albergo era orrendo per mille aspetti ma meraviglioso per almeno uno …consentiva
all’inciucio di viaggiare ad una velocità straordinaria, molti caratterizzarono quella gita…il
nostro è meno noto ai più ma sicuramente più enigmatico. Una sera chi vi scrive era nella sua
stanza , sul letto immediatamente prospiciente il mio erano stesi Ernesto e Francesca, non
vagheggi il lettore, semplicemente parlavano, ex abrupto sulla soglia della porta compare la
tetra figura di Chiara che pronuncia parole tanto eloquenti quanto criptiche, sembrerà un
ossimoro ma fu così , : “Ernesto, comunque grazie”.
Quella sera compresi che qualcosa sarebbe cambiato, il significato di quelle parole non sarà
mai interpretato del tutto , ma facilmente si comprese che avrebbero segnato una svolta, o
forse stuzzicarono semplicemente la mia civetteria. Chiara tornava in campo. Poi venne Aprile
, poi Maggio e nel frattempo sembrava che tutto scorresse come al solito, come il lettore avrà
compreso il mio non è un racconto di introspezione, probabilmente non sarei capace di
scendere a fondo negli abissi dell’umana indole , o più probabilmente mi interessa la carne
della storia, quella carne da macellaro che sta sulla bocca delle signore quando escono dalla
messa della sera.
Con la fine delle lezioni venne l’esame e con l’esame la libertà. Ecco questo fu il tempo in
cui la storia ebbe modo di maturare e le trame di infittirsi, i giorni trascorrevano ricchi
d’uscite, ma sappia il mio lettore che già nei giorni di preparazione all’esame si erano fatti
frequenti gli incontri tra i nostri due , comunque in quei giorni dopo l’esame s’usciva e
s’usciva parecchio. La Brocca , una cinquecento bianca , macchina di Chiara, na scassarola
belga, fu compagna di queste uscite estive prima che arrivasse Dumbo, un bel elefantino della
Lancia che subentrò con la patente di Ernesto dopo i tre giorni trascorsi , nell’immediato
postesame a Sapri.
Quei tre giorni furono la svolta della nostra storiella, faceva caldo, era il luglio più caldo
che io ricordassi e poi eravamo stanchi, tanto , troppo, e quei giorni furono meravigliosi,
non furnono molti ma intensi. Il mare , il sole, il cibo, la Signora Sofia, indimenticabile
materna confidente e accompagnatrice strenua d’un viaggio durato cinque anni: fu insomma in
quei giorni che Ernesto e Chiara presero a stare più vicini, forse troppo e noi tutti
comprendemmo che era fatta, per entrambi non più solo per Cicco, il nome che bonariamente
affibbiammo a Chiara illo tempore.
I due erano stranamente e chimicamente compatibili, le intemperanze della giovine si lenirono
all’arrivo del baldanzoso Ernesto, furono quelli i giorni di focose allusioni, e indiscreti
sguardi ma niente di più lettore mio, allora si campava di sole parole, ma fu in quel caos che
la situazione prese la piega giusta, mentre io magnavo crepes e hot-dog.
Tornammo, perche dai viaggi si torna sempre , purtroppo o per fortuna, qui le uscite si fecero
maggiori e di pari passo l’avvicinamento tra i due , in verità , caro lettore a me parve un
evento univoco che partiva e finiva su Chiara, forse non vedevo e forse m’aspettavo di vedere
altro che non potevo , Ernesto non ha l’indole del tromber de femme , lui è un buon comunista
mascherato da cattolico, lui la vittoria se la va cercando pian piano e così facendo la ha
già in tasca, e lui di averla già lo sa ed è per questo che sembra non preoccuparsi , ma io
lettore mio so più casareccio e cerco la carne da spozzoliare e lì carne non ne trovavo.
Vennero i giorni dei corsi di preparazione ai tests di Medicina , c’è ne fu uno che la mia
memoria conserverà sempre. Ci recammo con Alessandra, mia cara amica e di civetteria compagna,
e Ernesto ai corsi di preparazione, rimanemmo a Napoli per il pranzo, la cornice era
fantastica, mi ricordava il mio viaggio a Parigi, raggiungemmo una delle zone alte della città
e lì prendemmo una funicolare per raggiungere le assolate strade di quella Napoli più vicina
al mare, io camminavo , mi guardavo intorno ammirato, per il paesaggio e per le vetrine, il
sole scottava e l’asfalto cuoceva le strade, girammo un angolo, c’era una graziosa rosticceria
ricordo il profumo di fritto e la gente stipata, un tizio con i pantaloni chiari e la giacca
di lino che scendeva dallo scuter, poi ricordo ancora un’oziosa discussione senza senso
oggettivo, una delle tante, sui licei classici di Napoli, tra tante chiacchiere, per la verità
le loro furono poche , io e i due raggiungemmo la radiosa via Caracciolo, eravamo di fronte
al mare e a Castel dell’Ovo, mangiammo da “Ernesto e Ernesto”, io dovetti farmi prestare i
soldi perché l’uscita fu improvvisata. Compresi che qualcosa cambiava, forse era il caldo o
forse il mare o forse Napoli, ma Chiara s’avvicinava sempre più, il lettore ha ormai compreso
che gli avvicinamenti di Ernesto sono tanto impercettibili quanto rumorosi proprio perché
silenziosi. Girammo il castello e le terrazze , tentai di lasciarli soli ma non vi fu verso.
L’ultimo momento di quella giornata fu decisivo, aspettavamo il treno del ritorno, nella
stazione , seduta su una delle tante panchine in pietra che accompagnano i binari, Chiara presa da una stanchezza vera o presunta abbraccia Ernesto, s’appoggiava forse, fatto sta che muoveva i tentacoli.
Questi eventi nutrivano in modo esponenziale la mia civetteria che si sentiva rinvigorita come un tacchino natalizio farcito su per il culo di castagne, bello gonfio e dorato , mi sentivo ringalluzzire come non mai, ero in brodo di giuggiole, ma di quei brodi dolci e deliziosi, che ti inebriano e saziano allo stesso tempo, bene io lo bevevo e godevo come un bambino che si diverte con le macchinine sul parquet della cameretta. Chiamai la mia compagna d’inciucio: Alessandra. Convenimmo entrambi che lo smollamento di Chiara fosse eccessivo, insomma dopo mesi e mesi spesi ad attendere il tram che sembrava si fosse dimenticato di passare alla fermata Chiara cosa faceva??? Correva dietro il tram…no questo non era possibile. Doveva farsi desiderare. Doveva mettere il polpo a bollire per un po’, fargli odorare le violette da lontano, insomma il merletto si doveva veder ma non del tutto, le calze dovevano essere a rete ma la gonna non troppo alta!
Dovevamo intervenire.
Chiesi ad entrambi un colloquio in privato, Chiara me lo concesse. Ernesto a modo suo.
Era pomeriggio, lei aveva lasciato nella mia camera il suo portatile, venne per prenderlo e parlammo. Io mi sedetti sulla sedia che di solito hanno occupato i miei discepoli, lei su quella del maestro. Le dissi che le cose dovevano diventare più chiare, che certo non poteva continuare a smollarsi e vendere in saldi quella bella merce che si portava dietro, insomma doveva rincarare e tenere duro, non pensi a male il lettore.
Quella stessa sera decidemmo di trascorrerla ad un pub, non lontano da casa mia, c’erano i nostri due protagonisti, Roberta, io, ed Alessandra. Approfittammo d’un momento quello in cui Chiara andò al bagno per chiarire al buon Alessio le cose, chi conosce il nostro uomo sa che non è certo persona di molte parole e soprattutto di molte chiacchiere come il sottoscritto, spesso è sibillino ma deciso e dunque alle nostre insistenze civettuole rispose con un sonoro e accademico : “Conosco bene la psicologia femminile…”. Noi capimmo, lui anche…aspettammo.
L’estate era nel pieno, faceva sempre più caldo ma il paesino rimaneva ancora popolato , le belle vacanze mensili oramai non esistono più e pochi sono ancora quelli che ne hanno memoria o ne portano beneficio, e del popolo che ancora rimaneva in città facevamo parte anche noi , fatta eccezione per Gaia e Francesca, di cui come il lettore ha memoria , fummo ospiti. Insomma il caldo alimentava le uscite, i drink , gli aperitivi e le serate al fresco, ma , lettor mio il calore avvampava nei petti, e che petti. Decidemmo di spendere una delle ultime giornate prima del commiato per la vacanza al mare non lontano da qui in un parco acquatico. Chiara è per indole restia e dichiarò la sua volontà di non prendere parte al companatico, a cui oltre al sottoscritto appartenevano Ernesto, Giovanni ed Alessanfra. La mattinata si faceva avanti con poca decisione, il caldo non era eccessivo e il tempo non meraviglioso, alessia mi raggiunse a casa , parlammo , tra le altre cose, anche dei due nostri protagonisti, nel frattempo arrivò l’auto .
Era ferma , sulla strada davanti l’ingresso del vicolo, dentro , sul sedile posteriore era seduta Chiara. Ecco in quel momento una nuova scarica d’adrenalina di defilippiana memoria ci invase, prodigio non poteva essere, era carne e pure abbondante , era proprio quella di Chiara, il suggello era evidente, la trippa per l’inciucio abbondante, goloso il piatto di portata, goduriosa la situazione , imperdibile, irripetibile, straordinaria, galeotta , sorprendente, ghiotta, cicciosa , lettore mio, era quella la prima dichiarazione d’amore.
E poi venne il mare. La mia estate. Il mio Agosto.
Tornai per pochi giorni, ma abbastanza per capire cosa accadeva.
Il rapporto si era incredibilmente intensificato, le telefonate si erano fatte quotidiane , ogni sera si sentivano, ed erano le più o meno tipiche telefonate da fidanzati, in cui lui dice poco e lei…non molto di più. Ma qualcosa era cambiato, era cambiata Chiara. Non più la stessa, non con la tessa coerenza, non più lei, non più quella.
Tornai al mio Agosto. Al mio mare. Alla mia vacanza. Poi come ogni estate anche questa è finita, ritornai, in tempo per prendermi la febbre, e starmene al letto il necessario perchè le fila della vicenda si imbrogliassero e giungessero ad una volontaria fine. Non potevo sapere, i fumi della febbre mi prendevano e dalla calura estiva , quasi canicola lettore mio, che avvampava nessun fattorino giungeva a recapitar novelle. Ma la civetteria , si sa , è più arguta di qualunque mezzo, sa più di quanto riesca a conoscere la diplomazia , o forse, lettore mio, la diplomazia è una forma mascherata di civetteria, insomma sempre dei cazzi degli altri stiamo a parlà. E fu proprio essa , non appena s’apriron le bende a consentirmi di capire che la brezza s’era fatta vento, e l’impasto era cresciuto. E veniamo a ciò da cui è partita questa nostra storia ,lettore mio.
Chiara mi aveva proposto di accompagnarla alla stazione per prendere Antomio e Francesca che tornavano da Napoli, entrato in macchina compresi che qualcosa di strano c’era, in realtà lo avevo compreso la sera prima sulla community di face , fatto sta che nell’auto ballavano i sogni del giorno prima, siiii volavano li intorno, come lo zucchero filato, come il profumo di cannella, come quello di fragola , ma di quelle fragole dolci e morbide e zuccherine che improfumavano la cucina, perché l’amore sa di fragola e vaniglia, è dolce ma non troppo perché disgusti chi l’annusa, bè io lo sentivo, lo sentivo dai discorsi, quegli stessi che un tempo m’avevano fatto capire che nell’aria c’era Bob, ebbene ancora una volta la civetteria c’aveva azzeccato, c’era del marcio in Danimarca.
Protestai perché mi rendessero partecipe, molestai Chiara ma non ne ottenni niente, tornai a casa sconfitto ma consapevole che la battaglia non l’avevo persa. La giornata trascorse , come tante e come poche, con un libro e un notiziario, roba di sempre insomma, quella roba che sa di fresco e mai di stantio, si faceva sera , ma non era caldo, era uno degli ultimi giorni d’agosto , sembrava autunno ma non lo era o forse volevo che lo fosse, c’era un po’ di vento, un bel po’. Organizzai per la serata.
Sarebbe dovuto essere cinema, non lo fu. Entrai su face, lessi un commento di Chiara : “Quella torta era troppo buona”, ecco. Di nuovo l’estasi, di nuovo le giuggiole , le caramelle che volavano, il profumo di vaniglia e di fragola, era accaduto, si , era accaduto. Ora dovevo scendere in campo. Contattai Ernesto, come il lettore ha compreso , questo nostro figuro è un personaggio buono e mite , ben lontano dalla mia civetteria e bel lontano dall’inciucio, moderato e tranquillo, spesso troppo ma con un profilo nobile e buono, ecco egli non mi rispose davvero ; gli chiesi se ci fossero novità mi rispose : “bho…chiedi a lei”, ecco la conferma era arrivata, qualcosa era successo, Chiara lo confermò.
Quella sera era bellissima, scendemmo , Gaia con Grazia, Chiara con Noncuranza e io con Civetteria.
Rinunciammo da subito al cinema, la storia sarebbe stata un’altra. San Sebastiano non era affollatissima , anzi per le strade la gente era pochissima, poche le macchine , quasi nessuna, proprio come piace a me , proprio quando la cittadina è se stessa e non si veste di mille passanti, di mille voci, di mille volti e ognuno può darle quello che preferisce, tra gli alberi , i marciapiedi, le colonne, i negozi chiusi e i ristori aperti. Raggiungemmo le panchine, sotto gli alberi, non lontane dal comune, la luce veniva dai fari della strada. Ci sedemmo. Io cavalcioni, Chiara come la monaca di Monza nell’atto di confessarsi, e Gaia di frammezzo.
Il giorno prima la Tazza era partita, nel pomeriggio , nel caldo dell’ultimo agosto, c’era Francesca, Rosaria e Roberta, c’era Portici, il mare , gli scogli, c’era l’arrabbiatura finta d’una bellezza negata, c’era la giovinezza, la freschezza, il disincanto, c’era la solitudine, quella temporanea, fuggiasca, rapita al tempo. C’era uno scoglio. C’era Chiara, le gambe incrociate al petto, c’era la malizia, quel poco che basta per sentirsi donna, quel poco che basta perché sia donna davvero chi lo sente nel profondo e non chi svende la femminilità con la gonna alta e la vita da puttana; poi un abbraccio, poi le mani sugli occhi , poi la telefonata improvvisa d’un’amica di sempre, poi le mani sugli occhi, poi..poi …la mia civetteria cade perché qui c’è l’amore, e l’inciucio non resiste perché non ha niente da dire, da sputtanar, perchè muore sulle labbra d’un bacio voluto, ripetuto, cercato.
La brezza accarezza il tempo e accarezza il mare che si infrange su quegli scogli , mentre la Brocca riparte, e mentre un ultimo pescatore tende le canna all’acqua.
Viene la sera , viene il ricordo , viene il pensiero su un tempo che è finito ch’inizia , mentre il motore dell’auto riposa , e l’uomo sogna , perché è notte, e l’uomo è buono, e perché è agosto ma a me sembra già autunno.

martedì 21 dicembre 2010

Veglia di Natale


Tra gli ultimi sbuffi della rovente cenere
si perde romito il pensiero della sera,
si posa tra superstiti rivoli d’un fuoco sbiadito,
s’arena tra i ricordi abbandonati
sul tavolo nodoso del tinello
dalle mani d’un bambino.

Non voglio gli affanni della festa.
Lasciatemi qui
a giocare col
fanciullo
che aspetta Natale.

Aeterna casta virgo



Mater, casta virgo, lucem aeternam procreavisti,
a sino tuo sempiternum virgultum in cruore manantibus vastis locibus emersit ,
a labiis tuis humanitas errans immortale verbum cognovit.

Tu focus, perlucida ros, filia pudicissima , genetrix finitissima.
Dii uxor, hominis nupta, perfectionis divinum exemplum,
sinceritate induta , nuda ,mortalis ,aeterna .
In te aeterna hiems se estinguit, in te ordo a caho .
Aeternus clamor Illius qui regit ac gubernat , liberat et castigat,in te refulget
Amavisti sicut nemo, toleravisti sicut pauci,
tersisti filii tui crurore culpas nostras , nostros abominios.
Fons perpetuae divinitatis , sulcus prufundissimus in seculorum effluire,
vixisti in divinae crucis base atque tua ungue lignum signavisti,
coma tua filii immolati cruorem tersisti et eo benedixisti hominem, speciem et perennes orbes.
A grimio tuo mea stirps benedicta est,
ab oculis tuis progenies mea custodietur .

Ingens, immortalis.

Ab amore vincta et ab amore creata; tu quae nata es ut mater esses ,
age apud filio tuo ut non violatum Abrami ferrum dirumpat mea viscera
Fletu tuo mea lacera vulnera ablue, tu quae fuisti atque es mater et Aeterni filia ,
in tua bontade corripe ,ea consolare, ea me diliania et si non ostendam filius tuus,
in iugi doloris delirio fac sic ut gaudeam dolore et patiam voluptate,
omnes sensus subverte , obscura meam rationem, arta meum pectus
et in excelsa incoscentia ,mater aeterna,
ama me sicut nemo me umquam amavit.
Maria.

lunedì 13 dicembre 2010

La notte più lunga

Quello di stasera non è un racconto come tanti, come gli altri di questo blog.
Sono questi i pensieri di una giornata verbosa , di quelle giornate che qualcuno direbbe : sembrano non voler finire. Non so perché, forse per istinto o forse per troppo trasporto ,è questa una di quelle giornate che sembrano parlare direttamente alla storia.
Qualcuno ha detto che dalle parti nostre non ci si annoia mai, ecco ,caro lettore, ciò è verissimo.
Pensate al “culo assurdo” di vivere in Italia, il che di per sé è tutto dire; viverci ai tempi di Berlusconi, esperienza umana incredibile!;e per di più vivere ai tempi di una delle più grandi crisi , politiche ed economiche,dal dopoguerra (cazzo! Tutte a me dovevano capitare!!)
Ebbene , nonostante ciò, dai discorsi all’università e per le strade, nel pullman e alla televisione , ho capito che “da noi” esiste un modo tutto singolare di vivere gli eventi, ho capito che non esistono solo 70 milioni di commissari tecnici, ma anche 69.999.999 politici, deputati, senatori,sottosegretari … e via con le rappresentanze politiche …perché nel Bel Paese (non intendo il formaggio, per carità), ogni vecchia ,nel profondo della sua coscienza , pur non ammettendolo ,si ritiene capace cento volte di più rispetto al ministro dalla “evve moscia”, perché tutte le casalinghe hanno un innata capacità diplomatica,e tutti gli uomini da bar e punto Snai sanno che si campa all’insegna del “do ut des” (tu me raje cocc cos a me e ij te rong cocc cos a te”, che è caput et fundamentum della politica d’ogni tempo.
Proprio per questo, o forse no, forse perché la televisione è un parente acquisito e se la fiducia si potesse votare con il televoto estingueremmo il debito pubblico , con tutti gli euri che useremmo per chiamare, il giorno della sfiducia (sono convinto che così ce lo ricorderemo, comunque andrà)ha lo stesso appeal della finale di Sanremo, della finale del GF;una grande festa di piazza o , per chi preferisce, una prima alla Scala.
Tutto avviene secondo un canovaccio consumato, ma che affascina e ammalia;le tappezzerie rosse e le rifiniture dorate, le urla e i pettegolezzi, i giornalisti e le loro stronzate, la conta infinita. Ci sono proprio tutti nella commedia dell’Italia che finisce, che pensa di andare chissà dove ma ritorna, dei deputati che come “verginelle”trovano riparo sotto la casacca del buon pastore. E’l’Italia delle vajasse e delle mignotte, delle prostitute in parlamento(senza offesa alle donne che decidono liberamente di farlo per mestiere).
Ma è proprio questo ciò che ci piace, se ci mettessero un orchestrina con due tricchebballacche sarebbe,forse, ancora  meglio. Eppure tra una strombazzata e l’altra, una vajassa e un fascista, qualcosa và cambiando. I deputati si contano, alcuni aspettano ,altri decidono, c’è chi si rifà il trucco, e mentre gli Italiani vanno a dormire , la notte più lunga della Repubblica ha inizio.
P.S. Ai 69.999.999 di politicanti presunti che ho considerato manca uno per raggiungere i 70, bhè si tratta del presidente del consiglio, ho pensato che dopo 16 anni potesse bastare

venerdì 10 dicembre 2010

Grazie!

Grazie delle 309 visualizzazioni in così pochi giorni! Grazie dell'affetto!

Storia di un presidente. (cap.1)


Cara Maria, Cipro è bellissima, ogni angolo di questa stupenda isola è stato baciato da Venere , il mare è cristallino e le spiagge lunghe e bianche , come le perle di quella collana che ti regalai al tuo diciottesimo compleanno, il clima è mite e soprattutto in questo caldo mese di marzo, le giornate sono accompagnate da una gentile brezza quasi primaverile.
Tuttavia, come sai, non ho il tempo per dedicarmi al riposo, di cui tanto sento il bisogno dopo un anno di fatiche così intense. Le giornate sono occupate dalle riunioni di commissione che mi tengono impegnato per ore ed ore, spesso mi chiedo se tanto lavoro mi giovi davvero, ho speso tutta la mia giovinezza tra i libri , perseverante a tal punto da dimenticarmi di vivere.
Mi conosci bene, e sai quanto ami le cose che faccio ma spesso mi chiedo se valga davvero la pena di immergermi totalmente in esse, l’adolescenza è oramai andata perduta e con me porto i ricordi di giornate trascorse  alla ricerca di qualcosa che sembrava non darmi mai soddisfazione, Maria , mi sento malato di me stesso, di una malinconia che mi toglie ogni appagamento. I risultati, se pur grandiosi, non mi gratificano. Maria, mia cara sorella, non riesco ad essere felice.
L’Italia mi manca, mi mancano le giornate che trascorrevamo durante l’estate, da fanciulli nella villa della nonna , mi mancano le passeggiate con te nei momenti più difficili della giovinezza, ed ora sto perdendo i momenti più intimi di un rapporto fraterno.
Dimenticavo la cosa più cara, come stanno i miei nipotini?  e il mio caro cognato Mattia?, ho saputo dei fatto che lo coinvolto al ministero, sembra che il suo prestigio stia crescendo, ho ricevuto delle carte per lui , gliele manderò non appena potrò, il sole sta oramai tramontando, su questo lembo di terra spuntato, come un tenero fiore, nel mediterraneo.
Le luci nelle case di Nicosia iniziano ad accendersi, le famiglie si raccolgono , ed io mi guardo intorno in questa lussuosa stanza d’albergo, che occupo oramai da due mesi, vedo quadri alle pareti, meravigliosi mobili in stile vittoriano, ma non trovo nessuno con cui confidarmi, l’unico mio sfogo è la scrittura, ho scritto molte lettere che non ti ho mai inviato, forse questa sarà una di quelle o forse no.
Il mio animo è li con te , il mio corpo qui a Cipro.
Ave atque vale.

Tuo Giuseppe, Nicosia 25 marzo 19**



Le giornate si fanno più fredde e il tempo sembra scorrere più velocemente, forse per il duro lavoro o forse perché le ore di luce sono oramai poco più di otto.
Anche qui , nella bella Cipro, il freddo inizia a farsi sentire, è finalmente inverno.
Qui non piove molto come da noi, a Roma spesso , durante il mese di gennaio le strade del lungotevere diventano torrenti , qui per un po’ di pioggia impazziscono tutti, a Nicosia e in tutte le città dell’ isola non c’è un minimo di servizio pubblico, tutti , dai più ricchi ai più poveri si spostano con mezzi propri. Ricordo quelle lunghe giornate d’inverno , trascorse tra i libri, la famiglia e gli amici; il tepore delle stanze riscaldate dal camino e dalle stufe; ricordo il freddo delle mattinate pungenti , nelle quali scendendo dalla nostra prima casa e passando per le strade del centro, il viso mi si gelava e arrossiva, prima di raggiungere la scuola.
Ricordo la mamma che  veniva sin fuori la scuola , con la sua piccola Cinquecento per riportarci a casa .  Ricordo la nonna, che preparava, con tanta cura e dedizione i piatti che io adoravo e tu detestavi.
Ricordo la spensieratezza della fanciullezza e l’ansia dell’adolescenza, i vetri appannati e il freddo sulle gambe, le mani gelate e il caldo delle guance di chi salutavo, ricordo una casa bella e semplice, ricordo i nostri traumi , ricordo e ho paura di dimenticare.
Cara sorella mia, sei ora l’unica che mi ami al mondo .La tua famiglia è la mia. I tuoi ricordi , i miei.
Ruggiero mi ha da poco comunicato  che i lavori delle commissioni termineranno verso la fine di febbraio, per imprevisti e contrattempi sono stati prolungati rispetto alla data iniziale, ricevo ogni giorno notizie dalla mia amata Italia, sembra che i consensi per l’azione politica del mio partito stiano crescendo, ma molti sono ancora i contrasti .Molti mi accusano di essere quasi dispotico nelle mie decisioni, ma io , in tutta sincerità , non ritengo di esserlo, ho timore che gli altri possano vedermi come un pericolo ed io temo di essere in pericolo.
Non voglio tuttavia preoccuparti, aspetto tue notizie, ne riceverai molte da parte mia, che Dio benedica te e la tua famiglia.

P.S. Bacioni alla piccola Clara.

Nicosia 5 gennaio 19**




La mia attività qui è davvero finita, abbiamo ritenuto opportuno anticipare la partenza, la situazione stava peggiorando sempre più.
Ti racconto cosa successe circa tre settimane fa.
In uno degli ultimi giorni di gennaio, passeggiavo con Ruggiero ed alcuni altri delegati italiani per le strade della città , avevamo da poco terminato di cenare all’hotel e decidemmo di concederci una mezzora di riposo. Avevamo raggiunto la piazza antistante l’Hilton , le strade erano ormai deserte, come accade spesso qui verso le otto di sera. Erano le nove quando decidemmo di tornare all’albergo, salutati  gli altri delegati io e Ruggiero raggiungemmo la nostra camera.
Qui , con molta sorpresa vi trovammo, seduto all’esterno, sul pianerottolo antistante, un uomo ad attenderci.
Era un europeo , sulla sessantina, mingherlino e smunto , un paio di piccoli baffi, il suo volto era stanco, o forse mi sembrava tale per la barba incolta, era vestito di tutto punto; non appena mi vide balzò in piedi , accennò quasi un inchino e poi, tutto intimorito , chiese a Ruggiero se potesse parlarmi, io , meravigliato di tanto timore da parte sua, gli chiesi di entrare in camera per mettersi a suo agio, lui non volle . Non avrei mai immaginato che una personalità di tanto rilievo  si nascondesse dietro un volto così anonimo. Si presentò. La mia sorpresa fu tale che non seppi trattenere la vergogna per l’accoglienza  tanto umile che gli avevo riservato. Era sua eccellenza l’ambasciatore italiano , l’ingegnere Giovanni D’Alba.
L’incontro durò a lungo, parlammo e discutemmo appassionatamente, le conclusioni , cara Maria, le avvertirai in prima persona .Tra una settimana lascerò l’isola per ritornare in Italia, la mia permanenza qui non è più gradita, ti spiegherò meglio una volta ritornato. Sarà questa l’ultima mia lettera spedita da Nicosia,spero di rivederti a Roma non appena tornato, avvisa i pochi amici e i parenti del mio ritorno, ma bada bene, non diffondere troppo la notizia del mio arrivo, non è bene che si sappia troppo in giro.

Tuo Giuseppe, Nicosia  24 febbraio 19**









Avevo quasi dimenticato la bellezza del mio paese, Cipro mi era sembrata sin dal primo momento della mia permanenza sull’isola inadatta al mio animo romantico e sognatore, le strade e le città erano spoglie di monumenti e di bellezze, ogni cosa sembrava abbandonata a se stessa.
In mattinata siamo giunti all’aereoporto di Larnaca, Ruggiero , che mi è stato vicino in ogni istante di questa mia esperienza, mi ha accompagnato sin dove ha potuto. Ora sono solo, l’aereo sta finalmente  decollando, il sole sta per tramontare.
È trascorsa un’ora o poco più ,l’airbus è oramai alto nel cielo, lontane vedo le coste illuminate di questo stupendo mare , baciato dalla storia e da culture troppo diverse per essere tutte tanto vicine.
Tento di leggere un libro, è la traduzione in inglese, con critica italiana della Commedia di Dante, ma non riesco a concentrarmi, l’emozione è tante e l’ansia del ritorno cresce sempre più. Sui sedili davanti sono sedute  due anziane signore, penso che siano del nord, o almeno così mi sembra dall’accento, commentano le notizie di un giornale italiano.
Guardo oltre il finestrino, cerco di scorgere altro, di rubare in anticipo la vista di un pezzo della mia terra, ma il buio e tanto ed anche le nuvole, ci vorrà ancora del tempo prima di toccare terra.
Nei voli internazionali gli orari di pranzo e cena sono notoriamente quelli inglesi,.Ricordo le cene e i pranzi nel mio paesino di provincia, dove vissi sino all’età dei diciassette anni .Dopo la scuola, lo svago e lo studio, la cena era servita dalla nonna durante l’inverno ben dopo il tramonto, durante il periodo estivo e primaverile quando era oramai buio.
Ho finito il mio pasto, certo misero per un napoletano, manca un’ora all’atterraggio, le condizioni atmosferiche stanno peggiorando, il cielo ormai scuro si lascia fendere da fulmini che sembrano dividerlo, squartarlo, toccare il verivolo che ci trasporta in Italia.
Stiamo ora sorvolando la penisola, e l’aereo si porta finalmente più in basso, attraversa le nuvole.
L’aereoporto romano è senza dubbio degno della terra che l’ospita , e la terra della capitale trova in esso il simbolo più evidente di quanto Roma possa ancora a ragione ritenersi la capitale d’Europa e dell’occidente.
In prossimità dell’area degli arrivi trovo Maria ad attendermi, con lei i miei nipotini e il mio adorato cognato, vado loro in contro entusiasta, quasi piango dalla gioia di rivederli.
La piccola Carla tiene stretta la mano di Maria, Francesco e Syria sono tra le braccia del padre, aspetto che mi vengono in contro, che mi abbraccino, che il pianto di mia sorella bagni le mie guance .
Nulla di ciò che la mia mente e il mio cuore si attendevano accade.
Mia sorella rimase ferma li dove la vidi , mio cognato prese le mie valige e con uno strattone mi tirò a sè per poi condurmi verso la macchina posta all’ingresso dell’aereoporto. Il mio telefono cellulare iniziò a squillare, da quel momento non avrebbe più smesso, una voce rauca a me ben nota tuonò dall’altro capo, quella telefonata ha cambiato la mia vita, in quella notte di febbraio sono morto per rinascere e tornare a morire.

Questa è una storia si vittorie e di sconfitte, di rivincite e vendette, di amori e odi, di morte e vita , di morte e resurrezione .Di trasformazioni e cambiamenti radicali, di moto e di stasi , è la storia della vittoria e della sconfitta di Waterloo, della celebrazione dei vinti e il seppellimento dei vincitori.









Fuori è estate ma nelle stanze che oramai frequento quotidianamente da dieci anni a questa parte sono fredde per il gelo del potere , al di la dei vetri del mio studio l’Italia vive e soffre, i muri di queste stanze sono l’ultimo baluardo, tutti mi stimano, tutti mi apprezzano, ma pochi lo dimostrano.
È incredibile quanto Roma riesca ancora ad emozionarmi dopo ormai dieci anni, il tramonto della capitale è il più bello  che io abbia mai visto, e per un napoletano è davvero difficile ammetterlo. Il sole sta infiammando i palazzi , sembrano ardere furiosamente , bruciare in modo vorticoso senza lasciare il tempo a persone o cose di trovare una via di fuga, il sole sembra travolgerci , inesorabile nella sua bellezza. Dopo pochi minuti i tizzoni ardenti si sono spenti , il fuoco che aveva divampato , in pochi secondi, ha acquietato la sua ira. È sera.
Il telefono ha preso a squillare , è strano che accada a quest’ora , di solito i collaboratori si fanno vivi o molto prima o molto più tardi, rispondo. Dall’altro capo del telefono una voce stridula e squillante si impone.
- Pronto!!- è Adele , la segretaria, una donnina graziosa , sulla cinquantina , sprizza cellulite da tutti i pori. Ogni mattina arriva con la sua Seicento verde bottiglia e la parcheggia nel terzo cortile del palazzo, lavora per me da quasi nove anni. È nata nella provincia di Palermo, a Bagheria, il padre era un modesto ferroviere e la madre la tipica donnina siciliana e ,devo ammettere, Adele conserva bene i tratti tipicamente siculi. Dopo la morte del padre , rimasto ucciso “per sbaglio” in un agguato di mafia si trasferì nel “continente” all’età di dodici anni, andò a vivere nel Beneventano , in un piccolo paesino di settemila abitanti, il fratello della madre le pagò gli studi , riuscì a laurearsi in legge a soli ventiquattro anni. È una donna forte, di carattere , quando ad ora di pranzo ho qualche minuto libero e preferisco mangiare nel mio studio , la chiamo e pranziamo insieme, lei mi racconta la sua vita, mi racconta dei suoi figli, due ragazzoni di ventuno e ventitré anni, dei veri fenomeni a scuola. Il primo racconta è tutto sua madre, ha scelto anche lui la facoltà di legge, studia a Napoli e soggiorna dagli zii, il secondo vuole fare il medico e studia qui a Roma. Non parla quasi mai del marito , da cui si è separata da circa cinque anni, ricordo ancora la notte in cui mi chiamò disperata al cellulare. –Dottore la prego mi aiuti-,urlò disperata al telefono , - mio figlio , è scomparso… non so … non lo trovo…mi aiuti..la prego-.
Lo ritrovammo circa sei ore dopo , a villa Borghese dietro una panchina , diceva di essere scappato ma non sapeva da che e per quale motivo. In realtà lo sapeva bene, aveva scoperto delle difficoltà tra i genitori. – Se ne farà una ragione-blaterava quella bestia del padre. Fu l’ultima sera che lo vide.
Ricordo ancora di quando..-Pronto!!- dopo le vacanze pasquali…-Prontoooooo!!-
-Scusa Adele , stavo fantasticando-
-Me ne sono accorta ,Dottore-,
-ma quante volte ti ho detto che non sono dottore…e poi non devi rispondere pronto, lo sai mi da fastidio-, - ha ragione, mi scusi, comunque c’è sua moglie al telefono, che faccio gliela passo?-
-si,si certo-, -ah dottò dimenticavo è incazzata come una belva, che ha combinato sta volta?-
Un bip e poi la voce di mia moglie invase il mio orecchio.
-Tua sorella mi ha chiamato tre volte… ma ti rendi conto di che ore sono??, dovevamo essere già da lei , ho fatto accompagnare i ragazzi tre ore fa…mi rispondiii!?-
- Ah ??? perché scusa che dobbiamo fare da mia sorella?-
- E’il compleanno di tuo cognato, ricordi? Avevamo promesso di trascorrere il fine settimana da lui e poi saremmo partiti per il mare-
- Laura , lo sai bene che non faccio il salumiere che chiudo bottega e vado via-
- Si lo so ma tutti gli altri sono già in vacanza perché noi dobbiamo essere ogni anno gli ultimi a lasciare la città?-
- Scusa, hai ragione , tra mezzora sono li , ok?, fai preparare la macchina che partiamo subito-
- ok , ci vediamo tra mezzora , a e dì a quella peste di Adele di essere più garbata al telefono , le faccio fare la fine d’un’oca al forno!
Senza darmi possibilità di replicare sentì un lungo bip chiudere la nostra telefonata.
Laura negli ultimi anni mi era stata particolarmente vicina, era stata l’unica ragione della mia lotta quotidiana . Ricordo ancora chiaramente le notti in  cui eravamo costretti a lasciare in fretta la casa, la prima volta che accadde eravamo ancora a Milano, fuggimmo nel pieno della notte , Clara era appena nata , aveva pochi mesi , Francesco invece aveva quasi tre anni. Fui costretto a trascorrere un intera settimana in un bunker di cui non avrei nemmeno immaginato l’esistenza, non vidi nessuno per ore , solo dopo due giorni compresi ciò che stava accadendo , era stato necessario per me e per l’incolumità dei miei familiari procurarsi un luogo sicuro e chi me lo procurò mi sarebbe stato in seguito vicinissimo. Quella notte la mia vita cambiò per la seconda volta, rinacqui senza esserne consapevole , ma fu quella la notte che sentì per la prima volta un impulso irrefrenabile , una necessità che mai più sarei riuscito a placare. Nel buio di quel bunker maturai una necessità profonda, sentii le viscere infiammarsi, ardere dalla rabbia per ciò che stava accadendo. Da quella notte una parziale verità stava per essere resa nota.
La porta vibrò improvvisamente , pensai ad un terremoto , era Adele. Si ergeva alla maniera di Farinata dietro la soglia, tutta impettita ed accigliata. Oramai la sua fama la precedeva nei palazzi del potere, spesso le avevo affidato fascicoli importanti da portare da un piano all’altro, interi volumi di riservatezza strettissima. Mi fidavo moltissimo di quella donnina, graziosa e al contempo tenacissima , in fondo la mia coscienza sapeva che quella donna sarebbe stata la mia salvezza.
- Dottò , la macchina è pronta, la sta aspettando all’ingresso principale , si muova che non gradirei risentire quella vipera di sua moglie al telefono che mi blatera contro ..-
- Adele , sai che ti dico , penso che un giorno diventerete carissime amiche.
- Dottòò si muova!!-
 -non sono dottore!-
Prese quelle poche carte che gli sarebbero potute servire nel weekend , i tre cellulari e il palmare.
Roma era oramai avvolta  dal buio , le luci della città eterna arrancavano per affermarsi in una semi oscurità di cui a breve sarebbero divenute padrone. La capitale si preparava alla notte di estate , ed io per l’ultima volta ammiravo la sua bellezza dalle finestre di quello studio , di quell’ufficio che amministravo quasi da cinque anni.
La luce si spense, la porta si chiuse con un tonfo, mentre il telefono prendeva a squillare su quella scrivania ricolma di carte e il vociare del corridoio si faceva sempre più prepotente ed intenso , lo squillo del telefono emergeva sommerso nell’oscurità del grande studio ma nessuno poteva sentirlo , mezzo minuto dopo la segreteria partì. Adele come suo solito aveva provveduto ad azionarla prima di lasciare il palazzo e di accompagnare “il dottore”.
Un lungo suono acuto e poi…- Signore mi sente, signore mi sente, la prego risponda, è importante…Adele se mi sente passi la telefonata alla seconda linea…Adele è di fondamentale importanza…Signore è in pericolo non si allontani dal palazzo , anzi non esca dallo studio…la raggiungeremo noi …signore è li ?...Adele…ci sei?...signore …-.
La segreteria emise un altro lungo suono particolarmente acuto e poi di nuovo il silenzio.
Poi il silenzio della stanza lasciò spazio ad una serie di rumori sordi e sottili, spaccarono l’aria, la fendettero come coltelli affilati, una serie indecifrata e indecifrabile di suoni vennero emessi dall’apparecchio, a intervalli la voce di un uomo si alternava- mi sente… lasci il palazzo…subito…e in pericolo…- Poi di nuovo il silenzio, poi di nuovo il nulla.
L’auto blu si fece strada tra due ali di folla che come al solito si raccoglievano all’ingresso dell’edificio, poco distante , illuminata dalle luci della sera d’estate romana la seicento verde bottiglia di Adele luccicava per il riflesso, la manona della donna si fece strada attraverso il finestrino aperto per metà , salutava il dottore, come lei lo chiamava. Lui la vide , le sorrise , accennò un saluto a mano aperta.
Mentre la segretaria avanzava veloce , il dottore avanzava a stenti tra la folla, salutava e sorrideva , consapevole che solo i più vicini alla macchina avrebbero potuto scorgerlo , dato l’oscuramento dei vetri blindati dell’auto. Non appena il piccolo corteo si fu allontanato dalla piazza, il dottore tornò a scartoffiare e segnare appunti sull’agenda straripante, il cellulare prese a squillare , e così il palmare a vibrare sempre più forte. Non vi fece caso. Continuò a lavoricchiare. Il telefono satellitare emise il suono sordo e prolungato che annuncia la chiamata. Nulla tuttavia sembrava essersi mosso né nella mente né nell’auto. Il fresco dell’aria fredda proveniente dalla parte anteriore scosse la mente del dottore che evidentemente aveva sentito poco o nulla di ciò che gli stava intorno. Gli squilli furono nulla, sordi e atoni come tutto ciò che lo circondava. Chiese al suo assistente di spegnere il satellitare, affondò la mano sinistra nel taschino della giacca, premette su diversi tasti fino a quando non raggiunse quello di spegnimento, mentre la mano destra metteva a tacere il palmare nella tasca dei pantaloni. Un breve sospiro e poi di nuovo a lavoro.
L’auto svoltò due traverse dopo, qui un gruppetto di persone con uno striscione , applausi e grida come al solito quando quella macchina si spostava nelle strade della capitale.
- Ferma!-urlò,- ma come ?è sicuro-,
-ho detto ferma la macchina e aprimi il finestrino-
-ma è sicuro?-, -ho detto apri ! ora!-
Il finestrino si aprì , il gruppetto divenne folla, uno degli assistenti fu costretto a scendere dall’auto per frenarla. Cinque minuti di delirio, la gente sembrava impazzita, accadeva spesso durante le sue uscite pubbliche, soprattutto quelle improvvisate che si erano fatte sempre più frequenti negli ultimi tempi, la gente lo amava, lo adorava. Spesso accadeva che gli chiedessero foto o autografi come ad una rockstar.
Il finestrino del’auto fu chiuso di forza, mentre ancora tentava di firmare sul braccio di una ragazzina.
Il caldo dell’estate aveva invaso la macchina, non passarono pochi secondi che il fresco dell’impianto di condizionamento la aveva nuovamente invasa. Posò le carte nella cartella di pelle che aveva portato con se, chinò il capo , la fronte era imperlata di sudore, la deterse. Sentì la stanchezza pervaderlo, sentiva la gente acclamarlo, amarlo ma non aveva più la forza di salutare, confortare e firmare autografi. Una donna si butto al finestrino e mandava baci. Altri salutavano. Le urla di approvazione divennero quasi insopportabili. Chiuse gli occhi. Posò la testa sul lato.
Pochi secondi di finto silenzio. Poi la voce doppia di Alfredo tuonò.
-E’ incredibile …si rende conto…la adorano, la adulano, cose mai viste…faccio l’autista da quasi vent’anni, spesso ho fronteggiato risse e muri di persone imbufalite, ma mai ho dovuto affrontare folle esaltate dal passeggero dell’auto che conduco… si rende conto che la amano signor. Presidente-
Ma il presidente era troppo stanco per rispondere , emise un sibilo di assenso.






















La polvere si alza nelle strade, il sole cuoce la pelle delle donne e degli uomini, i bambini vivono e si amano , amano e vivono , giocano rincorrendosi, si feriscono , il sangue si impasta alla polvere . Il sangue dei bambini è puro e bello ,quasi una benedizione , lontano in un vicolo il sangue maledetto degli adulti , di quegli esseri che si definiscono uomini, schizza, sporca l’aria e le mura immacolate. Il cielo è bello e azzurro , si mescola alla città e al mare, i vicoli si rincorrono, si urtano , si infrangono gli uni negli altri poi sfociano , inondano lo spazio , si lasciano andare dove vogliono, come un fiume in piena finiscono per straripare in piazze immense, anfiteatri e teatri della vita.
Qui la gente mangia, lavora, si ama , vive, non vive solo se stessa. In questa città la gente vive sè e contemporaneamente gli altri, in un atto d’amore spesso scambiato per disubbidienza
Le donne lavorano per sè e per la famiglia, tutte le donne del mondo lo fanno ma qui è diverso , tutte lo fanno ma qui non allo stesso modo , qui lo fanno per amore,amando, amano e lavorano
In questa città gli uomini vivono come mai nessuno è riuscito , tra le difficoltà , su un filo quasi spezzato, un filo che qualcuno si affanna a recidere.
Anche gli uomini lavorano amando , ma non lo dimostrano, per questi il vero lavoro è quello per cui la schiena si piega, le mani si spezzano e si tagliano. Questa rimarrà sempre una città di lavoro e amore, in cui si ama lavorando , si lavora per amare e si ama nella fatica.
Il suo nome la vuole città nuova ma essa è la città che si rinnova e sa rinnovarsi.
A metà del giorno le strade sono deserte, il sole è forte e prepotente, cuoce quello che  trova; il profumo di cucinato si mischia alla polvere e al fumo di sigarette e dei motorini .
 Questo profumo tinge tutto ciò che trova. All’angolo l’olio è fumante e le pizze fritte sono nella vetrina riscaldata dal sole, un omone impasta e cuoce , cuoce , impasta e frigge, vende poi impasta e poi frigge.
I bimbi corrono veloci nella stradina , lui urla poi blatera e gli vende le pizze. Quando l’angolo si fa stradina e poi di nuovo vicolo, il sole si spegne, il fresco si fa strada e il vento lo supporta.
Alcune cassette di frutta sono all’ombra , ma il proprietario riposa, il gruppetto di bambini si fa coppia. Il fruttivendolo riposa, le cassette sono incustodite, le mele troneggiano le une sulle altre, ricche , rosse , fresche .
I due avanzano ma l’uomo è immerso nel sonno.
L’ultimo morso e la pizza è finita, la carta marrone è ora a chiazze, la appallottolano, tirano fuori le mele e poi , uno due e tre morsi. Del frutto rimane poco o nulla. I due si salutano.
Giuseppe corre, la mamma gli ha detto che a quest’ora non si deve girare per la città , quando non c’è gente può essere pericoloso, il sole gli brucia il capo, cade, si sbuccia un ginocchio, fa nulla.

La casa è in un vecchio palazzo, il portone è ad arco possente e insieme fragile, scrostato in più punti, precede un ampio cortile, nel centro ci sono due palme un mandarino e tre alberi di limoni, tre felci intorno e buganville viola. Corre , è troppo tardi, la mamma sarà già li , ad aspettarlo  alla porta. Corre ma tenendosi bene bene sulla destra per cercare di avere la meglio e non essere colto di sorpresa. Ma un grido improvviso…
- Giusè t’agg sentut-, - muovt si fortuna che pat’t nun c’è sta-, - e maccarun se so fatti fridd-

Quando viene l’estate Napoli è bellissima, via Caracciolo è indescrivibile, il castello , il mare, i ristoranti, e sullo sfondo il vulcano. Dicono che sia la città più bella del mondo, ma per Napoli sarebbe riduttivo, essa è senza dubbio una città unica , forse unica al mondo. Molti la affollano ma forse solo pochi ne sanno apprezzare l’effettiva bellezza. Lo splendore di questa città si nasconde nei posti meno noti, quelli  nascosti , che solo i Napoletani, quelli veri, conoscono .
A Napoli si mangia e si mangia bene, si vive e si vive bene. La terra di questa città è straordinaria, unica, bellissima, fertile come poche e difficile da comprendere per chi non la conosce.
Il popolo di Napoli è il Popolo, la gente di Napoli è la sola che se abbandona la propria città rimane napoletana. Popolo che ha combattuto e si è lasciato combattere, ha sconfitto e si è lasciato sconfiggere, è un popolo strano.
Molti ritengono che esso non abbia mai combattuto, non si sia mai ribellato per affermare le proprie prerogative e i propri diritti. Ma il popolo è popolo e non si può dire cosa sia bene faccia o cosa non dovrebbe nemmeno lontanamente appartenergli come comportamento, il popolo non è incolto, non è rozzo , burbero, non appartiene ad un colore, non prende una bandiera per sostenerla, perché ritiene che l’ideale che essa rappresenta possa appartenergli. Il popolo è tale , il popolo è popolo e non lo si può ritenere causa dello sfascio o motivo di sviluppo, il popolo non condiziona la storia ; esso è la storia. Molti pensano al popolo come a una bestia, un animale che devi riuscire a controllare , batterlo se necessario, non farlo imbufalire ma mai cercare di comprenderlo, il governante non può e non deve comprendere , il governante deve battere, e per farlo bene deve usare ogni mezzo a propria disposizione.
In tale logica quello napoletano trova un posto, una posizione senza dubbio particolare, esso si comporta , agisce come ritiene opportuno , facendo la bestia quando vuole, ma sa essere al contempo causa , motore di un movimento che solitamente non si ritiene possa partire dalla massa. Forse ciò accade ed è accaduto proprio perché esso non si è mai configurato come massa, se non in rarissime occasioni, che appunto tali sono rimaste.
Questo è il popolo che meglio di ogni altro riassume in se caratteristiche che appartengono ad un’Europa che , nell’incontrarsi con una cultura distante trova una componente ben distante dalla cultura del nord europeo, ovvero quella sud-mediterranea, la cultura degli uomini di mare che bacia quella degli uomini di montagna. È proprio in essa che trova la sua collocazione il modus vivendi di ogni famiglia. Le mamme e le nonne cucinano perché lo hanno imparato dalle mamme e dalle nonne , i maschi imparano a diventare uomini dagli uomini , nonni e padri, le femmine diventano donne , i bambini adulti , imparando reciprocamente. Ciò accade nelle strade dove si lavora , si vive, si mangia ; dove il sole cuoce , scotta , lascia il segno in una Napoli divina, eterna e peritura insieme, una città di lavoro e d’amore, dove la gente è popolo e il popolo è la gente, dove i bimbi correvano e corrono, dove si cade e ci si fa male ma si ha sempre la forza di rialzarsi, da bambini come da grandi, da giovani come da vecchi.
Il profumo è quello della vita , del mare e del fumo, del fritto e della frutta, della polvere, il profumo è quello del sole quando brucia le strade e i palazzi, che cuoce la testa dei bambini. E questo Giuseppe lo sa bene.
La pizza fritta era buona , ma mo si deve mangiare i maccheroni che la mamma ha cucinato e la sorella Maria sta mettendo a tavola , senno quando viene papà senti. Il collo gli brucia , non si è scottato per il sole , ma gli brucia lo stesso.
-Pensi solo a paziare , tutta la mattina in mezzo alla strada sotto a sto sole, nel mese di luglio, poi dici che quando torni a scuola la maestra ti rimprovera che non ti fai i compiti a casa-
- Ma non è vero, me li sto facendo i compiti e poi la maestra ha detto che ci dobbiamo anche riposare e io mi sto riposando… anche, e poi Maria non si sta facendo niente, pensa solo a Gaetano-
Maria si fece rossa in volto, poi bianca, poi rossa. La differenza di età tra i due non era molta, solo quattro anni, ma Maria, come diceva il papà “si era fatta una signorinella”.
-Tu fatt’e fatt tuj e penz’ a te-, la sentenza della mamma fu accompagnata da un altro schiaffo.
- Maroo maa, ma che ho detto?-, -lass sta a Maronn e parl buon- rispose la donna a tono.
Il vento che entrava dalla finestra era caldo, secco, ma bastava aprirne un’altra per “fare corrente”, per rinfrescare l’aria, sempre troppo calda d’estate e troppo fredda d’inverno, ma questa è Napoli e loro che ci potevano fare. La città del mare , del sole e della bellezza era fatta così, si comporta come la sua gente , fa un po’ come le pare.
Fa come Giuseppe che mangia quando vuole, gioca e si diverte, che si arrabbia con la madre ma quando sente la voce del papà è subito sull’attenti, che infondo infondo è innamorato di quella donna che a pranzo gli cucinava i maccheroni con il sugo, dopo che lui di nascosto si era mangiato la pizza fritta con la ricotta. Allora Giuseppe correva per le strade di una città diversa , ma che oggi come allora è una città di amore , di vita e di lavoro ; si sbucciava le ginocchia e il suo sangue si impastava con la polvere, giocava nelle strade e non studiava tanto poco come lamentava la mamma. Allora il nonno lo chiamava “O scugnizzo” , e forse un po’ lo era davvero, pure Maria lo chiamava così , ancora oggi lo fa, lo chiama “o scugnizzo”.
Ancora oggi il sole gli cuoce il capo, mangia le pizze fritte con la ricotta e i maccheroni con il sugo di pomodoro, ma oggi è divenuto un uomo. Da bambino aveva imparato dal papà e dal nonno, come la sorella aveva imparato dalla mamma e dalla nonna a diventare donna. Oggi lavora e ama , lavora amando. Lui però è riuscito a tagliarsi le mani e spezzarsi la schiena camminando , parlando , viaggiando ma anche scartoffiando , scrivendo.
Ogni tanto ripensa alla sua Napoli, alle corse di bambino, al profumo della sua città , al vento che accarezzava i capelli neri, ricorda Maria, e il suo bel viso, ricorda la mamma e il profumo della sua pelle, ricorda le mani del padre, spaccate e tagliate come quelle del nonno.
Apre gli occhi e si rende conto di essere lontano , troppo distante da un tempo che ama e rimpiange, ora ha una segretaria e dieci assistenti , ma Maria continua a chiamarlo “o scugnizzo”, lui continua a mangiare le pizze e i maccheroni, a cuocersi al sole e qualche volta anche a sbucciarsi le ginocchia. Allora era un bimbo , ora dalla sua macchina blindata con i vetri oscurati guarda la gente, oggi come allora ama e si fa amare, spesso vede la polvere alzarsi nel giardino della sua casa , e ripensa a quella polvere che alzava nelle secche giornate estive , tra quelle strade che oggi vede diverse e lontane. Oggi lo chiamano Presidente ma per fortuna c’è Maria che continua a chiamarlo “ o scugnizzo”.Poi torna a Napoli e la vede diversa, ma in fondo quando la osserva bene , osserva la sua gente, gente d’amore, si rende conto che qui si vive , si lavora e si ama davvero, si rendo conto che quel filo che sembra essersi spezzato, quel confine tra bene e male, tra lecito e illecito esiste. Ma quella non è Napoli, quella è un’altra cosa.










L’auto avanzava tra le strade della capitale diretta ai Parioli , uno dei quartieri più chic secondo alcuni , più bohemien secondo altri, fatto sta che li c’erano quelli che i Romani avrebbero definito i ricconi, ma il presidente un riccone non si sentiva. Le ruote dell’auto lasciavano i propri segni sull’asfalto, i vetri del veicolo si facevano bollenti, la piccola radio che il presidente aveva fatto istallare nella macchina, contro ogni principio di sicurezza , cominciò a emettere strani suoni, nessuno vi fece caso anzi la spensero.
Lo sguardo del dottore passava dai fogli alla strada, dalla strada agli specchietti laterali, da quelli laterali a quello retrovisore. D’improvviso lo sguardo da distratto si fece terribilmente attento, stranito, la perplessità inondò il suo volto, una strana espressione di disappunto iniziò a paventarsi.
Uno strano grigiore appariva in lontananza, da grigio si fece nero misto a sprazzi di rosso acceso, l’acuto suono delle sirene come un canto lontano iniziò ad invadere l’aria, un non so che di tetro prese ad avvolgere ogni cosa. In un secondo il mondo sembrò crollare.
Le spie d’emergenza iniziarono a lampeggiare, l’autista frenò di soprassalto, sbarrò con l’auto la strada, si rivolse al presidente e gli passo l’auricolare che aveva nell’orecchio destro.
Giuseppe non capiva, lo prese, armeggiò per pochi secondi poi lo cacciò nell’orecchio destro, il suono prepotente gli invase ogni senso.
- è sconvolgente, la nostra nazione nella sua storia non ha mai visto eventi tanto devastanti , tutta la nostra eredità, tutto ciò che siamo stati non è e non potrà essere più… ci scusiamo…ma mi stanno comunicando..che è totalmente distrutto..ecco ecco abbiamo le immagini..- il rumore d’un fragore improvviso invase il suo orecchio- nessuno mai avrebbe potuto pensare che in così pochi secondi i più alti simboli della nostra Repubblica potessero cadere, la camera e il senato sono distrutti per sempre-.
La notizia aveva dello sconvolgente, mai nessuno avrebbe potuto o osato immaginare che un avvenimento del genere sarebbe potuto accadere seppur quelli fossero anni terribili e bui e  gli agguati e le stragi di fossero all’ordine del giorno.













L’immagine che si presentava agli occhi dell’Italia e del mondo era terribile. L’aria non c’era più inghiottita dalla polvere, il suono aveva smesso d’esistere per essere fagocitato dall’odore, la puzza terribile invadeva i sensi di chiunque fosse nelle vicinanze, l’odore pungente del fumo  era ovunque , invadeva ogni cosa. Era difficile comprendere ciò che stesse accadendo, Roma era come il corpo di una donna malata, morente, che rantola nel letto che profuma di morte, le piaghe inflitte nella sua carne erano insopportabili, il dolore era lancinante. Dove prima tutto era stato ora nulla era più, il boato, che squartò le case, fece esplodere auto, fece andare in frantumi migliaia di vetri che come scintille di un falò in una notte d’Agosto, riempirono l’aria, accecarono gli uomini e il tempo.
Tutto vibrò per una decina di secondi, ogni cosa sembrò non essere quello che era stata  fino a pochi secondi prima, poi un secondo boato più forte e devastante del primo, poi le fiamme , ovunque, avvolgevano ogni cosa , divamparono d’improvviso, fulminee , terribili, ignobili, fendettero l’aria , fendettero il cielo della città eterna. Erano trascorsi pochi minuti da quel secondo boato quando un terzo, improvviso , ma decisamente più dolce e gentile,  fece tremare ogni cosa.
Poi, il nulla.
Tutto cessò di esistere e di sentirsi esistente, tutto morì fisicamente sotto gli  occhi di Roma e sotto quelli del mondo. Il silenzio fu l’unica sostanza di cui ogni cosa prese a vestirsi, nulla sembrò respirare per pochi brevi interminabili secondi, poi dal basso , dal profondo di ogni cosa la vita riprese ad esistere ma nulla fu più come prima, ora il fuoco regnava, il fumo impediva di vedere e Roma aveva le sue carni lacerate.
Il vento della sera avanzava tra le strade, per la prima volta dopo settimane era un vento fresco, questo attraversò le strade e i palazzi, spazzò via la polvere sospesa nell’aria umida dell’estate, come il sipario che si apre sul secondo atto di una sconvolgente tragedia, ciò che in pochi secondi era accaduto fu visibile a tutti.
Un enorme baratro era lì dove , fino a pochi secondi prima, era stata la camera dei deputati, piazza Montecitorio sembrava non essere mai esistita, al suo posto ora campeggiava il nulla, tutto era come disintegrato , portato via dal vento, nulla sembrava essere stato distrutto perché nulla sembrava essere mai esistito, lo squarcio era impressionate si estendeva fino a Piazza Colonna, fino a lambire palazzo Chigi, esso sembrava ora un enorme casa di villeggiatura che si affaccia su di un promontorio proteso verso il mare, verso un mare in tempesta che difficilmente si sarebbe placato.
Pietre erano state sbalzate ovunque, la loggia centrale non esisteva più né al suo posto né altrove, il bugnato della parte inferiore era scomparso, finito, morto.
Lontana tra un fosso ed un altro, tra un masso e un altro, volteggiava , spinto dal vento, un enorme drappo, finalmente si posò. Era lacero e sudicio, ma ancora del tutto riconoscibile, era il tricolore italiano. Poco distante anche Palazzo Madama sembrava non essere mai esistito, al suo posto il nulla , solo parte dei muri perimetrali aveva resistito al boato, per il resto lo spettacolo era raccapricciante. Macchine accartocciate erano ovunque, lamiere contorte decoravano come macabri agghindamenti lo spazio circostante, la polvere copriva ogni cosa. Il tempo era morto, la morte aveva vinto.
Lo spettacolo che si presentava agli occhi del mondo era sconvolgente , quando i fari dei primi soccorsi si accesero sulle macerie , tra i massi ,le pietre e la storia, come semi sparsi sul terreno che attendono di essere sotterrati, migliaia di carcasse giacevano senza vita, corpi di uomini, donne e bambini decoravano quel paesaggio di morte e desolazione.
Il sangue unito alla polvere impastava ogni cosa, tingeva i mattoni , sporcava la coscienza di chi tanto aveva commesso, tanto male aveva arrecato all’Italia.
La puzza della morte penetrò l’aria, corpi erano ovunque, giacevano oltraggiati sul  fondo di quel cratere che probabilmente era davvero l’ingresso all’inferno, l’inferno è quello che ci creiamo, che generiamo con la consapevolezza di farlo, l’inferno era ora salito sulla terra. Il rosso delle vite spezzate, aveva dipinto Roma, il disonore della vita aveva oltraggiato anche la morte.
Lontano dalla strada che un tempo portava a Piazza Montecitorio due cadaveri giacevano sull’asfalto insozzato dalla polvere, il vento ne agitava i vestiti leggeri, fianco a fianco le due figure erano stese sul suolo, probabilmente erano state scaraventate dal terribile boato, avevano gli occhi della morte, senza vita, senza spirito, senza animo erano posate non lontano dal marciapiede.
Quella più vicina al centro della strada sembrava essere una bambina , piccola, molto piccola,  la sua mano destra era posata su quella della donna morta che le stava a fianco, probabilmente erano state sbalzate per molti metri , e la morte , in un ultimo infame sogghigno pietoso, aveva fatto in modo che quelle dita si incontrassero. La fanciulletta era forse figlia di quella donna morta, o forse non lo era affatto, forse non si erano mai conosciute, o forse quella bambina non aveva mai avuto madre e  quella donna non aveva mai avuto una figlia.
Un vecchio , accasciato poco lontano si sollevò , vagò per un poco e si fermo poi affianco a quelle due figure di morte, pianse come mai aveva pianto, si chinò e con la sua mano impolverata e sanguinante chiuse loro gli occhi avvolti dal sonno della morte.













Il sole invadeva la casa, riflesso dal marmo bianco della camera da pranzo, il bagliore estivo sembrava riflettersi sulle pareti circostanti. Si sentiva provenire , dall’esterno il rumore dell’erba alta accarezzata dal vento, anche gli albicocchi e i peschi , dalle foglie larghe e leggere agitavano i loro rami. Tutto sembrava danzare , all’unisono, tutto nella luce dell’estate.
In lontananza , oltre le ultime villette e casali che si intravedevano dalla stanza , poche macchine sfrecciavano, e come il ronzio improvviso d’un’ape fendevano il silenzio rotto armonicamente dall’orchestra della natura.
L’idillio sembrava circondare la casa bianca, era un bell’edificio , modesto per grandezza, si apriva su un giardino elegantemente decorato con piccole statue di creta e argilla, una piscina non eccessivamente grande. I muri perimetrali erano in buona parte ricoperti di fiori viola che si arrampicavano fino all’ultimo piano. Da uno dei piani inferiori si sentiva provenire un’allegra canzonetta estiva, una di quelle che ricordano le felici estati degli anni sessanta.
Proveniva da una piccola radio, posta su un tavolino in ferro battuto di stile caprese.
Poi d’improvviso come un temporale d’agosto che giunge  a ciel sereno un telefono prese a squillare, squillò per un minuto ,poi una voce maschile rispose.
-si - ,
 - con il primo ed il secondo ci siamo…-
- ho visto alla tv-
- avete fatto un ottimo lavoro, lo spettacolo è devastante non avrei mai pesato che fosse possibile arrivare a tanto, ora bisogna procedere … dimenticavo… quella telefonata che aspettavo è arrivata, ci incontreremo qui domani pomeriggio alle tre e mezzo.-
La comunicazione si interruppe, e l’uomo tornò a girovagare per la casa, accese il suo sigaro dell’Havana, sfumacchiò un po’ , poi tornò a sedersi




Quando Giuseppe era piccolo andava a scuola nel centro di Napoli, a piazza Dante c’era il convitto, la gente diceva che era una delle migliori scuole della città , ma lui ci andava solo perché lo avevano obbligato. In realtà non sapeva che i genitori lo mandavano lì per le agevolazioni di cui potevano beneficiare le famiglie meno abbienti come la sua. A lui la scuola non era mai piaciuta, non gli piacevano quelle aule , grandi e fredde, non gli piacevano i suoi compagni di classe, non gli piacevano i professori, ma come diceva la mamma a scuola ci doveva andare, perché non poteva fare il pescivendolo come zio Ernesto, o il pescatore come quello sfaccendato di Armanduccio.
Armanduccio era un pescatore del porto vecchio, uno di quelli che pescava più femmine che pesci, lui le orate le vendeva a poco prezzo ma dietro a quel bancone del mercato “uff e che ci combinava alle signorine”; un giorno Teresa , la figlia del barbiere di via Roma, andò lì a fare la spesa, tornò a casa quindici mesi dopo , con un bambino in braccio, uno nella pancia e nella mano sinistra la busta con il pesce che la mamma le aveva comandato di comperare.
Dei professori de Convitto uno era quello che Giuseppe “schifava proprio”, il professore Piscitello, era uno di quelli che a scuola ci andavano per terrorizzare e non per insegnare , di italiano , di latino o greco non ci capiva niente, ma il professore lì era lui , lui comandava e gli altri obbedivano. Era un uomo bassino , sulla sessantina, a breve sarebbe andato in pensione , portava gli occhiali colore oro, i pantaloni alti , e le camice con il panciotto, la giacca e se ci andava a genio  si metteva anche la cravatta. Le sue lezioni erano noiosissime, dettava , scriveva , interrogava, scriveva ,dettava , interrogava; per  non parlare poi dei suoi compiti in classe, ma a Giuseppe non importava , tanto lui non le studiava quelle cose , perché lui da grande voleva fare il carrozziere.
Maria , invece, era una ragazzina “ a modo” , le piaceva molto lo studio, frequentava un educandato non lontano dal centro della città, spesso rimaneva a dormirvi, ma , nella gran parte dei casi , preferiva tornare a casa.
Durante l’estate la famiglia si raccoglieva tutta ; al mare si andava poco, seppure Napoli fosse la più bella città di mare secondo papà Luigi; i mesi di luglio e agosto trascorrevano nelle campagne della provincia, tra albicocche e pomodori. Il mese di Agosto era senza dubbio quello più bello, la canicola estiva avvampava ovunque, l’umidità era altissima, ma i pozzi d’acqua gelata erano in ogni angolo , la nonna riempiva bacinelle di alluminio con l’acqua tirata su a forza ,e così ci si divertiva tra un bagno e l’altro, tra una capanna in mezzo all’erba alta, e la puntura d’un’ape. La famiglia di Giuseppe era una famiglia “di faticatori”, e quindi anche l’estate torrida diventava momento di lavoro, i signori andavano a “squaccheriare” nel mare di Portici, quelli più ricchi a Positano o Sorrento, ma loro erano gente umile e andare in quelle località costava troppo; per la famiglia di Giuseppe e per molte altee come la sua Agosto era il tempo delle passate di pomodoro. Si lavorava senza tregua anche per due settimane, la raccolta, la pulitura, la macina , l’imbottigliamento; senza quel nettare non ci sarebbe stato il ragù della nonna, e maccarun e mammà, senza quella fatica le estati di quell’infanzia spensierata non sarebbero rimaste tanto impresse nella mente di Giuseppe, non sarebbero riaffiorate con tanta foga, in quei momenti tanto difficili , in quell’estate così particolare per il presidente.
La macchina correva , correva , correva…poi svoltava…poi riprendeva a correre…poi …il  buio.












Il presidente non capiva, non poteva capire, non doveva…erano gli altri che avevano scelto per lui , era lui l’unico uomo adatto, lo avevano compreso sin dalla sua elezione, e lui non poteva immaginare che fosse il predestinato, lui con quella sua storia politica così particolare, con quel suo modo di fare così fuori dal comune per un Presidente.
Ora intorno all’auto era tutto buio, terribilmente buio, l’oscurità sembrava insinuarsi prepotente in ogni spazio del veicolo , non poteva essere un rapimento…o forse poteva, ma sicuramente no…perché rapirlo…per riscattare chi , per riscattare cosa. Denaro ..forse. L’auto era guidata dal suo autista, aveva avuto sino a pochi secondi prima i suoi auricolari nelle orecchie, in tasca conservava ancora il telefono cellulare e il palmare…dunque? Perche la frenata improvvisa, perché quella sterzata, mai in nessuna esercitazione era avvenuta una cosa del genere,…perché il buio?
L’auto prese a sobbalzare e in lontananza iniziò a intravedersi una luce , si faceva sempre più vicina fino a quando il rumore delle pietre sotto le ruote si fece assordante , poi una nuova sterzata, poi il silenzio.
Era incredibile, il Presidente era sbalordito, non poteva essere vero. Da quando l’oscurità aveva avvolto la macchina in  modo impenetrabile, non aveva potuto scorgere nulla, aveva pensato che lo stessero conducendo attraverso qualche rampa sotterranea, che sarebbero sbucati in un enorme capannone, invece no, erano di nuovo sotto il cielo stellato di Roma, la luce era quella della luna , quella luna che di punto in bianco si era trasformata nel simbolo d’un estate di sofferenza , dolore per la nazione e per il mondo. Non impiegò molto tempo per comprendere dove fosse , alle loro spalle vi era un muro altissimo, che sembrava germogliare dall’erba e dalla vegetazione circostante, non lontano la struttura dell’edificio rompeva la linea retta per incurvarsi, Giuseppe alzò gli occhi in alto, intravide la celebre figura dell’angelo che sormonta il castello che si staglia dalla parte opposta a San Pietro. Si trovavano nel fossato di Castel Sant’Angelo, non sapeva come ci fossero arrivati , fatto sta che la macchina riprese a muoversi sulle pietre e a correre più veloce di prima, si rivolse all’autista ma questi non rispose , nemmeno il suo assistente lo fece, provò a insistere, una risposta la ebbe. Cadde supino sul sedile dell’auto presidenziale. Avrebbe continuato il viaggio dormendo, come faceva da bambino quando raggiungevano la casa in campagna della nonna .

giovedì 9 dicembre 2010

De historiae natura

Quando di notte l’uomo dorme nasce la storia,
m’affacciai alla finestra
vidi il suo spirito correre sulle gambe delle donne,
sentii il suo profumo tra i banchi del mercato,
lì dove la cannella ti sporca le mani.
L’ascoltai discutere alla luce di un lume,
l’ammirai affacciarsi ai balconi, salutare.
Ne sfiorai da vicino la carne tra quattro o cinque bidoni di fuoco,
la vidi seduta che piangeva d’un figlio, madre vecchia,
vedova d’un marito traditore.
Era stesa , non lontana da un motorino , senza più respirare,
senza più piangere, senza più gridare.
Vidi la Storia sulle mani d’un bambino, d’un contadino,
d’una maestra, la vidi nel ventre d’una madre.
La respirai nel sudore delle piazze, nel profumo delle sgualdrine,
nella puzza del sangue d’un morto morto ammazzato.
La vidi con la cravatta di Borsellino e di Falcone, con in bocca il sigaro
di Churchill , mi sorrideva al fianco di Mandela ,
teneva la voce di Luther King , e  i capelli
erano quelli acconciati della Thatcher.
Non aveva un volto , ma mille ombre , che camminavano, urlavano e parlavano,
parlavano, parlavano, parlavano…
Faceva freddo, chiusi la finestra, ma la poltrona pungeva
m’alzai
e
alla televisione
vidi la Storia morire,
la vidi rantolare ai piedi degli uomini che cercano il potere ,
strozzata dalle puttanate di chi vuole il consenso o la gloria,
soffocare per mano di quelli che cercano tangenti,
la vidi morire con l’operaio che cade dal cemento appena seccato,
la vidi morire con la donna violentata, giaceva stesa sulla terra dei parchi dove
di notte i ventenni si bucano, e la vidi per l’ultima volta nelle camere da letto
dove
i potenti
decidono.
Poi mi risedetti , chiusi gli occhi, m’addormentai.
E di notte , mentre io dormivo la Storia, ferita e sporca, si sollevò
di nuovo sulle gambe degli uomini e delle donne,
perché è di notte che la storia nasce
quando gli uomini cattivi dormono.

Piacere.

Mi sono cercato nei boschi,
sotto i pini e sotto gli arbusti
sotto i ponti e le gambe di sporche coscienze,
tra le doppie vite dell’uomo che non ha coraggio,
che cerca piacere e null’altro.

Mi persi e tornai al mondo,
dopo il finto sublime
l’abietto,
dopo la misteriosa libido
il dolore,
ora l’ultimo pensiero è timore.

E’speranza d’un sogno che ammali,ch’avvolga, che sani.
Che trovi quel tempo che stato,
amato , voluto, cercato
Or  gravido è rimasto il ventre,
senza nascituro che l’abiti,
gravato da vecchi piaceri,
nutrito dalle speranze di ieri.

Ma presto ritorno nei boschi e vado cercando
tra braccia che credo vicine
voluttà senza timori,
assoluzioni di vecchi rancori.
Vedo l’animo abietto affogare in un pozzo lontano,
piange  come un bambino
a cui madre abbia sottratto la mano.

Ora riposo nel letto
la notte scende solenne,silente,saccente,
avara compagna dell’uomo,
bisbiglia, sussurra, m’affanna,
materna al petto mi stringe
…và e corri lontano
all’uomo nel pozzo tendi la mano.

Il pianto solca le carni
terge e chiede perdono
bagna le labbra che seno materno appella
mi ricaccia dentro una culla.

D’un ultimo anelito
della notte il sogno
con la sua eco
invade il giorno.
Ora son desto.

mercoledì 8 dicembre 2010

Puttana gloria


Puttana sei Gloria terrena
T’amo e t’adoro come mai adorai,
servitrice d’un appagamento che tal mai non fu.
D’alloro m’adorni il capo , come nettare m’inebri la gola,
allettatrice fai sgorgar rugiade dalla notte scura dell’animo mio.
Meretrice esperta delizi l’uom che da te passa, col fascino tuo di follia lo inebri.
T’attesi tra le mura di Troia, e tu senza pìeta per me fosti Elena e di conflitti foriera per me
vincitore.
 Ma puttana , vai ad altro uomo,
io t’attesi ancora invano ,
al lume della stanza
 tra i fumi dell’ira che sgorgava dall’animo mio offeso
perché tu
fingendoti amante
da me fuggisti,
puttana.
E or che l’ardor più non trema, or che col fascino tuo non mi veneri , or che ad altro amante che fu
per te servetto, chino tra le braccia tue, vieni,
si palesa all’animo mio che in me nascesti e ch’io ti generai e tu mai esistesti
se non come il piacer fuggente dell’uom che alle delizie delle carni tue si affida.
Gloria


N.M.

Il mio paese. (P.2)


Il mio è un paese.
Sono nato in paese.
Vivo in paese.
Sono un paesano.
Ho sempre pensato che quello in cui vivo fosse il prototipo di paese, un paese è qualcosa di diverso da una piccola cittadina perché nell’essere la ridotta dimensione di qualcosa che nella sua interezza assume un significato diverso finirebbe con l’acquisirne le caratteristiche , ecco dunque che l’unico termine per definire il paese è il paese. Il mio non era né di montagna e tantomeno di mare, perché talora, lettore mio, il paese si rifiuta di sottostare a stupide classificazioni, il mio è il paese in cui nacqui. In realtà non sono nato proprio nel mio di paese ma in un piccolo paese , un altro, qui vicino ma non troppo perché un giorno possa dire di non essere nato dove ho vissuto la mia adolescenza, la mia giovinezza.
Dal balcone con i geranei e le buganville si vedeva un pino, un prato , tre palazzi e il mondo, vedevo il mondo quand’ero ragazzo perché il mondo era  quel paesino arroccato sulle pendici del Vesuvio, dal balcone si vedeva Napoli e Napoli vedeva il  mio balcone , vi balzava dentro , sembrava che il mio balcone s’affacciasse sulla città, e la città s’affacciasse sul mio balcone ,il balcone della casa dove trascorsi i momenti più belli della vita vera , quando ancora la domenica si andava alla messa perché lo imponeva il buon senso , la buona maniera, la nonna con le sue buone maniere, e la fede vera e sincera d’ogni fanciullo, d’ogni giovine, anche quello più schivo , anche quello più restio. Alla sera un lampione illuminava la stradina dove abitavo, era un piccolo vicolo, né troppo stretto e tantomeno eccessivamente largo, collegava la strada principale del paese ad una zona decisamente più moderna, quando calava la sera il buio s’impossessava con instabile padronanza di tutto quanto circondava la mia abitazione, l’odore del giorno che finisce invadeva le narici mie e di ogni altro paesano, le narici di chi aveva lavorato e di chi aveva studiato, di chi aveva amato e di chi aveva sofferto, per se , per gli altri, per un altro che ama , che amò o che ha smesso d’amare. Quando scendeva la sera i lampioni s’infuocavano , e la luce inondava con rispetto la stradina, illuminando, ma non troppo, i palazzi e l’asfalto che , durante il giorno, aveva accolto i timori e i sentimenti di vita della gente che passa e che corre. Ora è sera nel paese e il paese torna ad essere scenografia d’un palco che perde i teatranti , che sovrasta le tavole polverose d’un teatro che all’imbrunire sembra non aver visto mai piede d’attore, le auto si fanno rade e le voci velate , nascoste, pudiche , familiari, intime, foriere di segreti pensieri, segrete riflessioni che s’animano quando la famiglia s’unisce, alla sera, alla sera i portoni si chiudono quando l’ultimo bar nella piazza rimane aperto per chissà quanto , per chissà chi, per vendere birra , per vendere alle puttane che di giorno si fingono signore e di notte come Boccadirosa attirano l’ira funesta delle cagnette, ma quelle di paese son comunque signore , quando siedono al bar, sorseggiano caffè e si scrutano per comprendere a chi abbian sottratto l’osso.