venerdì 10 dicembre 2010

Storia di un presidente. (cap.1)


Cara Maria, Cipro è bellissima, ogni angolo di questa stupenda isola è stato baciato da Venere , il mare è cristallino e le spiagge lunghe e bianche , come le perle di quella collana che ti regalai al tuo diciottesimo compleanno, il clima è mite e soprattutto in questo caldo mese di marzo, le giornate sono accompagnate da una gentile brezza quasi primaverile.
Tuttavia, come sai, non ho il tempo per dedicarmi al riposo, di cui tanto sento il bisogno dopo un anno di fatiche così intense. Le giornate sono occupate dalle riunioni di commissione che mi tengono impegnato per ore ed ore, spesso mi chiedo se tanto lavoro mi giovi davvero, ho speso tutta la mia giovinezza tra i libri , perseverante a tal punto da dimenticarmi di vivere.
Mi conosci bene, e sai quanto ami le cose che faccio ma spesso mi chiedo se valga davvero la pena di immergermi totalmente in esse, l’adolescenza è oramai andata perduta e con me porto i ricordi di giornate trascorse  alla ricerca di qualcosa che sembrava non darmi mai soddisfazione, Maria , mi sento malato di me stesso, di una malinconia che mi toglie ogni appagamento. I risultati, se pur grandiosi, non mi gratificano. Maria, mia cara sorella, non riesco ad essere felice.
L’Italia mi manca, mi mancano le giornate che trascorrevamo durante l’estate, da fanciulli nella villa della nonna , mi mancano le passeggiate con te nei momenti più difficili della giovinezza, ed ora sto perdendo i momenti più intimi di un rapporto fraterno.
Dimenticavo la cosa più cara, come stanno i miei nipotini?  e il mio caro cognato Mattia?, ho saputo dei fatto che lo coinvolto al ministero, sembra che il suo prestigio stia crescendo, ho ricevuto delle carte per lui , gliele manderò non appena potrò, il sole sta oramai tramontando, su questo lembo di terra spuntato, come un tenero fiore, nel mediterraneo.
Le luci nelle case di Nicosia iniziano ad accendersi, le famiglie si raccolgono , ed io mi guardo intorno in questa lussuosa stanza d’albergo, che occupo oramai da due mesi, vedo quadri alle pareti, meravigliosi mobili in stile vittoriano, ma non trovo nessuno con cui confidarmi, l’unico mio sfogo è la scrittura, ho scritto molte lettere che non ti ho mai inviato, forse questa sarà una di quelle o forse no.
Il mio animo è li con te , il mio corpo qui a Cipro.
Ave atque vale.

Tuo Giuseppe, Nicosia 25 marzo 19**



Le giornate si fanno più fredde e il tempo sembra scorrere più velocemente, forse per il duro lavoro o forse perché le ore di luce sono oramai poco più di otto.
Anche qui , nella bella Cipro, il freddo inizia a farsi sentire, è finalmente inverno.
Qui non piove molto come da noi, a Roma spesso , durante il mese di gennaio le strade del lungotevere diventano torrenti , qui per un po’ di pioggia impazziscono tutti, a Nicosia e in tutte le città dell’ isola non c’è un minimo di servizio pubblico, tutti , dai più ricchi ai più poveri si spostano con mezzi propri. Ricordo quelle lunghe giornate d’inverno , trascorse tra i libri, la famiglia e gli amici; il tepore delle stanze riscaldate dal camino e dalle stufe; ricordo il freddo delle mattinate pungenti , nelle quali scendendo dalla nostra prima casa e passando per le strade del centro, il viso mi si gelava e arrossiva, prima di raggiungere la scuola.
Ricordo la mamma che  veniva sin fuori la scuola , con la sua piccola Cinquecento per riportarci a casa .  Ricordo la nonna, che preparava, con tanta cura e dedizione i piatti che io adoravo e tu detestavi.
Ricordo la spensieratezza della fanciullezza e l’ansia dell’adolescenza, i vetri appannati e il freddo sulle gambe, le mani gelate e il caldo delle guance di chi salutavo, ricordo una casa bella e semplice, ricordo i nostri traumi , ricordo e ho paura di dimenticare.
Cara sorella mia, sei ora l’unica che mi ami al mondo .La tua famiglia è la mia. I tuoi ricordi , i miei.
Ruggiero mi ha da poco comunicato  che i lavori delle commissioni termineranno verso la fine di febbraio, per imprevisti e contrattempi sono stati prolungati rispetto alla data iniziale, ricevo ogni giorno notizie dalla mia amata Italia, sembra che i consensi per l’azione politica del mio partito stiano crescendo, ma molti sono ancora i contrasti .Molti mi accusano di essere quasi dispotico nelle mie decisioni, ma io , in tutta sincerità , non ritengo di esserlo, ho timore che gli altri possano vedermi come un pericolo ed io temo di essere in pericolo.
Non voglio tuttavia preoccuparti, aspetto tue notizie, ne riceverai molte da parte mia, che Dio benedica te e la tua famiglia.

P.S. Bacioni alla piccola Clara.

Nicosia 5 gennaio 19**




La mia attività qui è davvero finita, abbiamo ritenuto opportuno anticipare la partenza, la situazione stava peggiorando sempre più.
Ti racconto cosa successe circa tre settimane fa.
In uno degli ultimi giorni di gennaio, passeggiavo con Ruggiero ed alcuni altri delegati italiani per le strade della città , avevamo da poco terminato di cenare all’hotel e decidemmo di concederci una mezzora di riposo. Avevamo raggiunto la piazza antistante l’Hilton , le strade erano ormai deserte, come accade spesso qui verso le otto di sera. Erano le nove quando decidemmo di tornare all’albergo, salutati  gli altri delegati io e Ruggiero raggiungemmo la nostra camera.
Qui , con molta sorpresa vi trovammo, seduto all’esterno, sul pianerottolo antistante, un uomo ad attenderci.
Era un europeo , sulla sessantina, mingherlino e smunto , un paio di piccoli baffi, il suo volto era stanco, o forse mi sembrava tale per la barba incolta, era vestito di tutto punto; non appena mi vide balzò in piedi , accennò quasi un inchino e poi, tutto intimorito , chiese a Ruggiero se potesse parlarmi, io , meravigliato di tanto timore da parte sua, gli chiesi di entrare in camera per mettersi a suo agio, lui non volle . Non avrei mai immaginato che una personalità di tanto rilievo  si nascondesse dietro un volto così anonimo. Si presentò. La mia sorpresa fu tale che non seppi trattenere la vergogna per l’accoglienza  tanto umile che gli avevo riservato. Era sua eccellenza l’ambasciatore italiano , l’ingegnere Giovanni D’Alba.
L’incontro durò a lungo, parlammo e discutemmo appassionatamente, le conclusioni , cara Maria, le avvertirai in prima persona .Tra una settimana lascerò l’isola per ritornare in Italia, la mia permanenza qui non è più gradita, ti spiegherò meglio una volta ritornato. Sarà questa l’ultima mia lettera spedita da Nicosia,spero di rivederti a Roma non appena tornato, avvisa i pochi amici e i parenti del mio ritorno, ma bada bene, non diffondere troppo la notizia del mio arrivo, non è bene che si sappia troppo in giro.

Tuo Giuseppe, Nicosia  24 febbraio 19**









Avevo quasi dimenticato la bellezza del mio paese, Cipro mi era sembrata sin dal primo momento della mia permanenza sull’isola inadatta al mio animo romantico e sognatore, le strade e le città erano spoglie di monumenti e di bellezze, ogni cosa sembrava abbandonata a se stessa.
In mattinata siamo giunti all’aereoporto di Larnaca, Ruggiero , che mi è stato vicino in ogni istante di questa mia esperienza, mi ha accompagnato sin dove ha potuto. Ora sono solo, l’aereo sta finalmente  decollando, il sole sta per tramontare.
È trascorsa un’ora o poco più ,l’airbus è oramai alto nel cielo, lontane vedo le coste illuminate di questo stupendo mare , baciato dalla storia e da culture troppo diverse per essere tutte tanto vicine.
Tento di leggere un libro, è la traduzione in inglese, con critica italiana della Commedia di Dante, ma non riesco a concentrarmi, l’emozione è tante e l’ansia del ritorno cresce sempre più. Sui sedili davanti sono sedute  due anziane signore, penso che siano del nord, o almeno così mi sembra dall’accento, commentano le notizie di un giornale italiano.
Guardo oltre il finestrino, cerco di scorgere altro, di rubare in anticipo la vista di un pezzo della mia terra, ma il buio e tanto ed anche le nuvole, ci vorrà ancora del tempo prima di toccare terra.
Nei voli internazionali gli orari di pranzo e cena sono notoriamente quelli inglesi,.Ricordo le cene e i pranzi nel mio paesino di provincia, dove vissi sino all’età dei diciassette anni .Dopo la scuola, lo svago e lo studio, la cena era servita dalla nonna durante l’inverno ben dopo il tramonto, durante il periodo estivo e primaverile quando era oramai buio.
Ho finito il mio pasto, certo misero per un napoletano, manca un’ora all’atterraggio, le condizioni atmosferiche stanno peggiorando, il cielo ormai scuro si lascia fendere da fulmini che sembrano dividerlo, squartarlo, toccare il verivolo che ci trasporta in Italia.
Stiamo ora sorvolando la penisola, e l’aereo si porta finalmente più in basso, attraversa le nuvole.
L’aereoporto romano è senza dubbio degno della terra che l’ospita , e la terra della capitale trova in esso il simbolo più evidente di quanto Roma possa ancora a ragione ritenersi la capitale d’Europa e dell’occidente.
In prossimità dell’area degli arrivi trovo Maria ad attendermi, con lei i miei nipotini e il mio adorato cognato, vado loro in contro entusiasta, quasi piango dalla gioia di rivederli.
La piccola Carla tiene stretta la mano di Maria, Francesco e Syria sono tra le braccia del padre, aspetto che mi vengono in contro, che mi abbraccino, che il pianto di mia sorella bagni le mie guance .
Nulla di ciò che la mia mente e il mio cuore si attendevano accade.
Mia sorella rimase ferma li dove la vidi , mio cognato prese le mie valige e con uno strattone mi tirò a sè per poi condurmi verso la macchina posta all’ingresso dell’aereoporto. Il mio telefono cellulare iniziò a squillare, da quel momento non avrebbe più smesso, una voce rauca a me ben nota tuonò dall’altro capo, quella telefonata ha cambiato la mia vita, in quella notte di febbraio sono morto per rinascere e tornare a morire.

Questa è una storia si vittorie e di sconfitte, di rivincite e vendette, di amori e odi, di morte e vita , di morte e resurrezione .Di trasformazioni e cambiamenti radicali, di moto e di stasi , è la storia della vittoria e della sconfitta di Waterloo, della celebrazione dei vinti e il seppellimento dei vincitori.









Fuori è estate ma nelle stanze che oramai frequento quotidianamente da dieci anni a questa parte sono fredde per il gelo del potere , al di la dei vetri del mio studio l’Italia vive e soffre, i muri di queste stanze sono l’ultimo baluardo, tutti mi stimano, tutti mi apprezzano, ma pochi lo dimostrano.
È incredibile quanto Roma riesca ancora ad emozionarmi dopo ormai dieci anni, il tramonto della capitale è il più bello  che io abbia mai visto, e per un napoletano è davvero difficile ammetterlo. Il sole sta infiammando i palazzi , sembrano ardere furiosamente , bruciare in modo vorticoso senza lasciare il tempo a persone o cose di trovare una via di fuga, il sole sembra travolgerci , inesorabile nella sua bellezza. Dopo pochi minuti i tizzoni ardenti si sono spenti , il fuoco che aveva divampato , in pochi secondi, ha acquietato la sua ira. È sera.
Il telefono ha preso a squillare , è strano che accada a quest’ora , di solito i collaboratori si fanno vivi o molto prima o molto più tardi, rispondo. Dall’altro capo del telefono una voce stridula e squillante si impone.
- Pronto!!- è Adele , la segretaria, una donnina graziosa , sulla cinquantina , sprizza cellulite da tutti i pori. Ogni mattina arriva con la sua Seicento verde bottiglia e la parcheggia nel terzo cortile del palazzo, lavora per me da quasi nove anni. È nata nella provincia di Palermo, a Bagheria, il padre era un modesto ferroviere e la madre la tipica donnina siciliana e ,devo ammettere, Adele conserva bene i tratti tipicamente siculi. Dopo la morte del padre , rimasto ucciso “per sbaglio” in un agguato di mafia si trasferì nel “continente” all’età di dodici anni, andò a vivere nel Beneventano , in un piccolo paesino di settemila abitanti, il fratello della madre le pagò gli studi , riuscì a laurearsi in legge a soli ventiquattro anni. È una donna forte, di carattere , quando ad ora di pranzo ho qualche minuto libero e preferisco mangiare nel mio studio , la chiamo e pranziamo insieme, lei mi racconta la sua vita, mi racconta dei suoi figli, due ragazzoni di ventuno e ventitré anni, dei veri fenomeni a scuola. Il primo racconta è tutto sua madre, ha scelto anche lui la facoltà di legge, studia a Napoli e soggiorna dagli zii, il secondo vuole fare il medico e studia qui a Roma. Non parla quasi mai del marito , da cui si è separata da circa cinque anni, ricordo ancora la notte in cui mi chiamò disperata al cellulare. –Dottore la prego mi aiuti-,urlò disperata al telefono , - mio figlio , è scomparso… non so … non lo trovo…mi aiuti..la prego-.
Lo ritrovammo circa sei ore dopo , a villa Borghese dietro una panchina , diceva di essere scappato ma non sapeva da che e per quale motivo. In realtà lo sapeva bene, aveva scoperto delle difficoltà tra i genitori. – Se ne farà una ragione-blaterava quella bestia del padre. Fu l’ultima sera che lo vide.
Ricordo ancora di quando..-Pronto!!- dopo le vacanze pasquali…-Prontoooooo!!-
-Scusa Adele , stavo fantasticando-
-Me ne sono accorta ,Dottore-,
-ma quante volte ti ho detto che non sono dottore…e poi non devi rispondere pronto, lo sai mi da fastidio-, - ha ragione, mi scusi, comunque c’è sua moglie al telefono, che faccio gliela passo?-
-si,si certo-, -ah dottò dimenticavo è incazzata come una belva, che ha combinato sta volta?-
Un bip e poi la voce di mia moglie invase il mio orecchio.
-Tua sorella mi ha chiamato tre volte… ma ti rendi conto di che ore sono??, dovevamo essere già da lei , ho fatto accompagnare i ragazzi tre ore fa…mi rispondiii!?-
- Ah ??? perché scusa che dobbiamo fare da mia sorella?-
- E’il compleanno di tuo cognato, ricordi? Avevamo promesso di trascorrere il fine settimana da lui e poi saremmo partiti per il mare-
- Laura , lo sai bene che non faccio il salumiere che chiudo bottega e vado via-
- Si lo so ma tutti gli altri sono già in vacanza perché noi dobbiamo essere ogni anno gli ultimi a lasciare la città?-
- Scusa, hai ragione , tra mezzora sono li , ok?, fai preparare la macchina che partiamo subito-
- ok , ci vediamo tra mezzora , a e dì a quella peste di Adele di essere più garbata al telefono , le faccio fare la fine d’un’oca al forno!
Senza darmi possibilità di replicare sentì un lungo bip chiudere la nostra telefonata.
Laura negli ultimi anni mi era stata particolarmente vicina, era stata l’unica ragione della mia lotta quotidiana . Ricordo ancora chiaramente le notti in  cui eravamo costretti a lasciare in fretta la casa, la prima volta che accadde eravamo ancora a Milano, fuggimmo nel pieno della notte , Clara era appena nata , aveva pochi mesi , Francesco invece aveva quasi tre anni. Fui costretto a trascorrere un intera settimana in un bunker di cui non avrei nemmeno immaginato l’esistenza, non vidi nessuno per ore , solo dopo due giorni compresi ciò che stava accadendo , era stato necessario per me e per l’incolumità dei miei familiari procurarsi un luogo sicuro e chi me lo procurò mi sarebbe stato in seguito vicinissimo. Quella notte la mia vita cambiò per la seconda volta, rinacqui senza esserne consapevole , ma fu quella la notte che sentì per la prima volta un impulso irrefrenabile , una necessità che mai più sarei riuscito a placare. Nel buio di quel bunker maturai una necessità profonda, sentii le viscere infiammarsi, ardere dalla rabbia per ciò che stava accadendo. Da quella notte una parziale verità stava per essere resa nota.
La porta vibrò improvvisamente , pensai ad un terremoto , era Adele. Si ergeva alla maniera di Farinata dietro la soglia, tutta impettita ed accigliata. Oramai la sua fama la precedeva nei palazzi del potere, spesso le avevo affidato fascicoli importanti da portare da un piano all’altro, interi volumi di riservatezza strettissima. Mi fidavo moltissimo di quella donnina, graziosa e al contempo tenacissima , in fondo la mia coscienza sapeva che quella donna sarebbe stata la mia salvezza.
- Dottò , la macchina è pronta, la sta aspettando all’ingresso principale , si muova che non gradirei risentire quella vipera di sua moglie al telefono che mi blatera contro ..-
- Adele , sai che ti dico , penso che un giorno diventerete carissime amiche.
- Dottòò si muova!!-
 -non sono dottore!-
Prese quelle poche carte che gli sarebbero potute servire nel weekend , i tre cellulari e il palmare.
Roma era oramai avvolta  dal buio , le luci della città eterna arrancavano per affermarsi in una semi oscurità di cui a breve sarebbero divenute padrone. La capitale si preparava alla notte di estate , ed io per l’ultima volta ammiravo la sua bellezza dalle finestre di quello studio , di quell’ufficio che amministravo quasi da cinque anni.
La luce si spense, la porta si chiuse con un tonfo, mentre il telefono prendeva a squillare su quella scrivania ricolma di carte e il vociare del corridoio si faceva sempre più prepotente ed intenso , lo squillo del telefono emergeva sommerso nell’oscurità del grande studio ma nessuno poteva sentirlo , mezzo minuto dopo la segreteria partì. Adele come suo solito aveva provveduto ad azionarla prima di lasciare il palazzo e di accompagnare “il dottore”.
Un lungo suono acuto e poi…- Signore mi sente, signore mi sente, la prego risponda, è importante…Adele se mi sente passi la telefonata alla seconda linea…Adele è di fondamentale importanza…Signore è in pericolo non si allontani dal palazzo , anzi non esca dallo studio…la raggiungeremo noi …signore è li ?...Adele…ci sei?...signore …-.
La segreteria emise un altro lungo suono particolarmente acuto e poi di nuovo il silenzio.
Poi il silenzio della stanza lasciò spazio ad una serie di rumori sordi e sottili, spaccarono l’aria, la fendettero come coltelli affilati, una serie indecifrata e indecifrabile di suoni vennero emessi dall’apparecchio, a intervalli la voce di un uomo si alternava- mi sente… lasci il palazzo…subito…e in pericolo…- Poi di nuovo il silenzio, poi di nuovo il nulla.
L’auto blu si fece strada tra due ali di folla che come al solito si raccoglievano all’ingresso dell’edificio, poco distante , illuminata dalle luci della sera d’estate romana la seicento verde bottiglia di Adele luccicava per il riflesso, la manona della donna si fece strada attraverso il finestrino aperto per metà , salutava il dottore, come lei lo chiamava. Lui la vide , le sorrise , accennò un saluto a mano aperta.
Mentre la segretaria avanzava veloce , il dottore avanzava a stenti tra la folla, salutava e sorrideva , consapevole che solo i più vicini alla macchina avrebbero potuto scorgerlo , dato l’oscuramento dei vetri blindati dell’auto. Non appena il piccolo corteo si fu allontanato dalla piazza, il dottore tornò a scartoffiare e segnare appunti sull’agenda straripante, il cellulare prese a squillare , e così il palmare a vibrare sempre più forte. Non vi fece caso. Continuò a lavoricchiare. Il telefono satellitare emise il suono sordo e prolungato che annuncia la chiamata. Nulla tuttavia sembrava essersi mosso né nella mente né nell’auto. Il fresco dell’aria fredda proveniente dalla parte anteriore scosse la mente del dottore che evidentemente aveva sentito poco o nulla di ciò che gli stava intorno. Gli squilli furono nulla, sordi e atoni come tutto ciò che lo circondava. Chiese al suo assistente di spegnere il satellitare, affondò la mano sinistra nel taschino della giacca, premette su diversi tasti fino a quando non raggiunse quello di spegnimento, mentre la mano destra metteva a tacere il palmare nella tasca dei pantaloni. Un breve sospiro e poi di nuovo a lavoro.
L’auto svoltò due traverse dopo, qui un gruppetto di persone con uno striscione , applausi e grida come al solito quando quella macchina si spostava nelle strade della capitale.
- Ferma!-urlò,- ma come ?è sicuro-,
-ho detto ferma la macchina e aprimi il finestrino-
-ma è sicuro?-, -ho detto apri ! ora!-
Il finestrino si aprì , il gruppetto divenne folla, uno degli assistenti fu costretto a scendere dall’auto per frenarla. Cinque minuti di delirio, la gente sembrava impazzita, accadeva spesso durante le sue uscite pubbliche, soprattutto quelle improvvisate che si erano fatte sempre più frequenti negli ultimi tempi, la gente lo amava, lo adorava. Spesso accadeva che gli chiedessero foto o autografi come ad una rockstar.
Il finestrino del’auto fu chiuso di forza, mentre ancora tentava di firmare sul braccio di una ragazzina.
Il caldo dell’estate aveva invaso la macchina, non passarono pochi secondi che il fresco dell’impianto di condizionamento la aveva nuovamente invasa. Posò le carte nella cartella di pelle che aveva portato con se, chinò il capo , la fronte era imperlata di sudore, la deterse. Sentì la stanchezza pervaderlo, sentiva la gente acclamarlo, amarlo ma non aveva più la forza di salutare, confortare e firmare autografi. Una donna si butto al finestrino e mandava baci. Altri salutavano. Le urla di approvazione divennero quasi insopportabili. Chiuse gli occhi. Posò la testa sul lato.
Pochi secondi di finto silenzio. Poi la voce doppia di Alfredo tuonò.
-E’ incredibile …si rende conto…la adorano, la adulano, cose mai viste…faccio l’autista da quasi vent’anni, spesso ho fronteggiato risse e muri di persone imbufalite, ma mai ho dovuto affrontare folle esaltate dal passeggero dell’auto che conduco… si rende conto che la amano signor. Presidente-
Ma il presidente era troppo stanco per rispondere , emise un sibilo di assenso.






















La polvere si alza nelle strade, il sole cuoce la pelle delle donne e degli uomini, i bambini vivono e si amano , amano e vivono , giocano rincorrendosi, si feriscono , il sangue si impasta alla polvere . Il sangue dei bambini è puro e bello ,quasi una benedizione , lontano in un vicolo il sangue maledetto degli adulti , di quegli esseri che si definiscono uomini, schizza, sporca l’aria e le mura immacolate. Il cielo è bello e azzurro , si mescola alla città e al mare, i vicoli si rincorrono, si urtano , si infrangono gli uni negli altri poi sfociano , inondano lo spazio , si lasciano andare dove vogliono, come un fiume in piena finiscono per straripare in piazze immense, anfiteatri e teatri della vita.
Qui la gente mangia, lavora, si ama , vive, non vive solo se stessa. In questa città la gente vive sè e contemporaneamente gli altri, in un atto d’amore spesso scambiato per disubbidienza
Le donne lavorano per sè e per la famiglia, tutte le donne del mondo lo fanno ma qui è diverso , tutte lo fanno ma qui non allo stesso modo , qui lo fanno per amore,amando, amano e lavorano
In questa città gli uomini vivono come mai nessuno è riuscito , tra le difficoltà , su un filo quasi spezzato, un filo che qualcuno si affanna a recidere.
Anche gli uomini lavorano amando , ma non lo dimostrano, per questi il vero lavoro è quello per cui la schiena si piega, le mani si spezzano e si tagliano. Questa rimarrà sempre una città di lavoro e amore, in cui si ama lavorando , si lavora per amare e si ama nella fatica.
Il suo nome la vuole città nuova ma essa è la città che si rinnova e sa rinnovarsi.
A metà del giorno le strade sono deserte, il sole è forte e prepotente, cuoce quello che  trova; il profumo di cucinato si mischia alla polvere e al fumo di sigarette e dei motorini .
 Questo profumo tinge tutto ciò che trova. All’angolo l’olio è fumante e le pizze fritte sono nella vetrina riscaldata dal sole, un omone impasta e cuoce , cuoce , impasta e frigge, vende poi impasta e poi frigge.
I bimbi corrono veloci nella stradina , lui urla poi blatera e gli vende le pizze. Quando l’angolo si fa stradina e poi di nuovo vicolo, il sole si spegne, il fresco si fa strada e il vento lo supporta.
Alcune cassette di frutta sono all’ombra , ma il proprietario riposa, il gruppetto di bambini si fa coppia. Il fruttivendolo riposa, le cassette sono incustodite, le mele troneggiano le une sulle altre, ricche , rosse , fresche .
I due avanzano ma l’uomo è immerso nel sonno.
L’ultimo morso e la pizza è finita, la carta marrone è ora a chiazze, la appallottolano, tirano fuori le mele e poi , uno due e tre morsi. Del frutto rimane poco o nulla. I due si salutano.
Giuseppe corre, la mamma gli ha detto che a quest’ora non si deve girare per la città , quando non c’è gente può essere pericoloso, il sole gli brucia il capo, cade, si sbuccia un ginocchio, fa nulla.

La casa è in un vecchio palazzo, il portone è ad arco possente e insieme fragile, scrostato in più punti, precede un ampio cortile, nel centro ci sono due palme un mandarino e tre alberi di limoni, tre felci intorno e buganville viola. Corre , è troppo tardi, la mamma sarà già li , ad aspettarlo  alla porta. Corre ma tenendosi bene bene sulla destra per cercare di avere la meglio e non essere colto di sorpresa. Ma un grido improvviso…
- Giusè t’agg sentut-, - muovt si fortuna che pat’t nun c’è sta-, - e maccarun se so fatti fridd-

Quando viene l’estate Napoli è bellissima, via Caracciolo è indescrivibile, il castello , il mare, i ristoranti, e sullo sfondo il vulcano. Dicono che sia la città più bella del mondo, ma per Napoli sarebbe riduttivo, essa è senza dubbio una città unica , forse unica al mondo. Molti la affollano ma forse solo pochi ne sanno apprezzare l’effettiva bellezza. Lo splendore di questa città si nasconde nei posti meno noti, quelli  nascosti , che solo i Napoletani, quelli veri, conoscono .
A Napoli si mangia e si mangia bene, si vive e si vive bene. La terra di questa città è straordinaria, unica, bellissima, fertile come poche e difficile da comprendere per chi non la conosce.
Il popolo di Napoli è il Popolo, la gente di Napoli è la sola che se abbandona la propria città rimane napoletana. Popolo che ha combattuto e si è lasciato combattere, ha sconfitto e si è lasciato sconfiggere, è un popolo strano.
Molti ritengono che esso non abbia mai combattuto, non si sia mai ribellato per affermare le proprie prerogative e i propri diritti. Ma il popolo è popolo e non si può dire cosa sia bene faccia o cosa non dovrebbe nemmeno lontanamente appartenergli come comportamento, il popolo non è incolto, non è rozzo , burbero, non appartiene ad un colore, non prende una bandiera per sostenerla, perché ritiene che l’ideale che essa rappresenta possa appartenergli. Il popolo è tale , il popolo è popolo e non lo si può ritenere causa dello sfascio o motivo di sviluppo, il popolo non condiziona la storia ; esso è la storia. Molti pensano al popolo come a una bestia, un animale che devi riuscire a controllare , batterlo se necessario, non farlo imbufalire ma mai cercare di comprenderlo, il governante non può e non deve comprendere , il governante deve battere, e per farlo bene deve usare ogni mezzo a propria disposizione.
In tale logica quello napoletano trova un posto, una posizione senza dubbio particolare, esso si comporta , agisce come ritiene opportuno , facendo la bestia quando vuole, ma sa essere al contempo causa , motore di un movimento che solitamente non si ritiene possa partire dalla massa. Forse ciò accade ed è accaduto proprio perché esso non si è mai configurato come massa, se non in rarissime occasioni, che appunto tali sono rimaste.
Questo è il popolo che meglio di ogni altro riassume in se caratteristiche che appartengono ad un’Europa che , nell’incontrarsi con una cultura distante trova una componente ben distante dalla cultura del nord europeo, ovvero quella sud-mediterranea, la cultura degli uomini di mare che bacia quella degli uomini di montagna. È proprio in essa che trova la sua collocazione il modus vivendi di ogni famiglia. Le mamme e le nonne cucinano perché lo hanno imparato dalle mamme e dalle nonne , i maschi imparano a diventare uomini dagli uomini , nonni e padri, le femmine diventano donne , i bambini adulti , imparando reciprocamente. Ciò accade nelle strade dove si lavora , si vive, si mangia ; dove il sole cuoce , scotta , lascia il segno in una Napoli divina, eterna e peritura insieme, una città di lavoro e d’amore, dove la gente è popolo e il popolo è la gente, dove i bimbi correvano e corrono, dove si cade e ci si fa male ma si ha sempre la forza di rialzarsi, da bambini come da grandi, da giovani come da vecchi.
Il profumo è quello della vita , del mare e del fumo, del fritto e della frutta, della polvere, il profumo è quello del sole quando brucia le strade e i palazzi, che cuoce la testa dei bambini. E questo Giuseppe lo sa bene.
La pizza fritta era buona , ma mo si deve mangiare i maccheroni che la mamma ha cucinato e la sorella Maria sta mettendo a tavola , senno quando viene papà senti. Il collo gli brucia , non si è scottato per il sole , ma gli brucia lo stesso.
-Pensi solo a paziare , tutta la mattina in mezzo alla strada sotto a sto sole, nel mese di luglio, poi dici che quando torni a scuola la maestra ti rimprovera che non ti fai i compiti a casa-
- Ma non è vero, me li sto facendo i compiti e poi la maestra ha detto che ci dobbiamo anche riposare e io mi sto riposando… anche, e poi Maria non si sta facendo niente, pensa solo a Gaetano-
Maria si fece rossa in volto, poi bianca, poi rossa. La differenza di età tra i due non era molta, solo quattro anni, ma Maria, come diceva il papà “si era fatta una signorinella”.
-Tu fatt’e fatt tuj e penz’ a te-, la sentenza della mamma fu accompagnata da un altro schiaffo.
- Maroo maa, ma che ho detto?-, -lass sta a Maronn e parl buon- rispose la donna a tono.
Il vento che entrava dalla finestra era caldo, secco, ma bastava aprirne un’altra per “fare corrente”, per rinfrescare l’aria, sempre troppo calda d’estate e troppo fredda d’inverno, ma questa è Napoli e loro che ci potevano fare. La città del mare , del sole e della bellezza era fatta così, si comporta come la sua gente , fa un po’ come le pare.
Fa come Giuseppe che mangia quando vuole, gioca e si diverte, che si arrabbia con la madre ma quando sente la voce del papà è subito sull’attenti, che infondo infondo è innamorato di quella donna che a pranzo gli cucinava i maccheroni con il sugo, dopo che lui di nascosto si era mangiato la pizza fritta con la ricotta. Allora Giuseppe correva per le strade di una città diversa , ma che oggi come allora è una città di amore , di vita e di lavoro ; si sbucciava le ginocchia e il suo sangue si impastava con la polvere, giocava nelle strade e non studiava tanto poco come lamentava la mamma. Allora il nonno lo chiamava “O scugnizzo” , e forse un po’ lo era davvero, pure Maria lo chiamava così , ancora oggi lo fa, lo chiama “o scugnizzo”.
Ancora oggi il sole gli cuoce il capo, mangia le pizze fritte con la ricotta e i maccheroni con il sugo di pomodoro, ma oggi è divenuto un uomo. Da bambino aveva imparato dal papà e dal nonno, come la sorella aveva imparato dalla mamma e dalla nonna a diventare donna. Oggi lavora e ama , lavora amando. Lui però è riuscito a tagliarsi le mani e spezzarsi la schiena camminando , parlando , viaggiando ma anche scartoffiando , scrivendo.
Ogni tanto ripensa alla sua Napoli, alle corse di bambino, al profumo della sua città , al vento che accarezzava i capelli neri, ricorda Maria, e il suo bel viso, ricorda la mamma e il profumo della sua pelle, ricorda le mani del padre, spaccate e tagliate come quelle del nonno.
Apre gli occhi e si rende conto di essere lontano , troppo distante da un tempo che ama e rimpiange, ora ha una segretaria e dieci assistenti , ma Maria continua a chiamarlo “o scugnizzo”, lui continua a mangiare le pizze e i maccheroni, a cuocersi al sole e qualche volta anche a sbucciarsi le ginocchia. Allora era un bimbo , ora dalla sua macchina blindata con i vetri oscurati guarda la gente, oggi come allora ama e si fa amare, spesso vede la polvere alzarsi nel giardino della sua casa , e ripensa a quella polvere che alzava nelle secche giornate estive , tra quelle strade che oggi vede diverse e lontane. Oggi lo chiamano Presidente ma per fortuna c’è Maria che continua a chiamarlo “ o scugnizzo”.Poi torna a Napoli e la vede diversa, ma in fondo quando la osserva bene , osserva la sua gente, gente d’amore, si rende conto che qui si vive , si lavora e si ama davvero, si rendo conto che quel filo che sembra essersi spezzato, quel confine tra bene e male, tra lecito e illecito esiste. Ma quella non è Napoli, quella è un’altra cosa.










L’auto avanzava tra le strade della capitale diretta ai Parioli , uno dei quartieri più chic secondo alcuni , più bohemien secondo altri, fatto sta che li c’erano quelli che i Romani avrebbero definito i ricconi, ma il presidente un riccone non si sentiva. Le ruote dell’auto lasciavano i propri segni sull’asfalto, i vetri del veicolo si facevano bollenti, la piccola radio che il presidente aveva fatto istallare nella macchina, contro ogni principio di sicurezza , cominciò a emettere strani suoni, nessuno vi fece caso anzi la spensero.
Lo sguardo del dottore passava dai fogli alla strada, dalla strada agli specchietti laterali, da quelli laterali a quello retrovisore. D’improvviso lo sguardo da distratto si fece terribilmente attento, stranito, la perplessità inondò il suo volto, una strana espressione di disappunto iniziò a paventarsi.
Uno strano grigiore appariva in lontananza, da grigio si fece nero misto a sprazzi di rosso acceso, l’acuto suono delle sirene come un canto lontano iniziò ad invadere l’aria, un non so che di tetro prese ad avvolgere ogni cosa. In un secondo il mondo sembrò crollare.
Le spie d’emergenza iniziarono a lampeggiare, l’autista frenò di soprassalto, sbarrò con l’auto la strada, si rivolse al presidente e gli passo l’auricolare che aveva nell’orecchio destro.
Giuseppe non capiva, lo prese, armeggiò per pochi secondi poi lo cacciò nell’orecchio destro, il suono prepotente gli invase ogni senso.
- è sconvolgente, la nostra nazione nella sua storia non ha mai visto eventi tanto devastanti , tutta la nostra eredità, tutto ciò che siamo stati non è e non potrà essere più… ci scusiamo…ma mi stanno comunicando..che è totalmente distrutto..ecco ecco abbiamo le immagini..- il rumore d’un fragore improvviso invase il suo orecchio- nessuno mai avrebbe potuto pensare che in così pochi secondi i più alti simboli della nostra Repubblica potessero cadere, la camera e il senato sono distrutti per sempre-.
La notizia aveva dello sconvolgente, mai nessuno avrebbe potuto o osato immaginare che un avvenimento del genere sarebbe potuto accadere seppur quelli fossero anni terribili e bui e  gli agguati e le stragi di fossero all’ordine del giorno.













L’immagine che si presentava agli occhi dell’Italia e del mondo era terribile. L’aria non c’era più inghiottita dalla polvere, il suono aveva smesso d’esistere per essere fagocitato dall’odore, la puzza terribile invadeva i sensi di chiunque fosse nelle vicinanze, l’odore pungente del fumo  era ovunque , invadeva ogni cosa. Era difficile comprendere ciò che stesse accadendo, Roma era come il corpo di una donna malata, morente, che rantola nel letto che profuma di morte, le piaghe inflitte nella sua carne erano insopportabili, il dolore era lancinante. Dove prima tutto era stato ora nulla era più, il boato, che squartò le case, fece esplodere auto, fece andare in frantumi migliaia di vetri che come scintille di un falò in una notte d’Agosto, riempirono l’aria, accecarono gli uomini e il tempo.
Tutto vibrò per una decina di secondi, ogni cosa sembrò non essere quello che era stata  fino a pochi secondi prima, poi un secondo boato più forte e devastante del primo, poi le fiamme , ovunque, avvolgevano ogni cosa , divamparono d’improvviso, fulminee , terribili, ignobili, fendettero l’aria , fendettero il cielo della città eterna. Erano trascorsi pochi minuti da quel secondo boato quando un terzo, improvviso , ma decisamente più dolce e gentile,  fece tremare ogni cosa.
Poi, il nulla.
Tutto cessò di esistere e di sentirsi esistente, tutto morì fisicamente sotto gli  occhi di Roma e sotto quelli del mondo. Il silenzio fu l’unica sostanza di cui ogni cosa prese a vestirsi, nulla sembrò respirare per pochi brevi interminabili secondi, poi dal basso , dal profondo di ogni cosa la vita riprese ad esistere ma nulla fu più come prima, ora il fuoco regnava, il fumo impediva di vedere e Roma aveva le sue carni lacerate.
Il vento della sera avanzava tra le strade, per la prima volta dopo settimane era un vento fresco, questo attraversò le strade e i palazzi, spazzò via la polvere sospesa nell’aria umida dell’estate, come il sipario che si apre sul secondo atto di una sconvolgente tragedia, ciò che in pochi secondi era accaduto fu visibile a tutti.
Un enorme baratro era lì dove , fino a pochi secondi prima, era stata la camera dei deputati, piazza Montecitorio sembrava non essere mai esistita, al suo posto ora campeggiava il nulla, tutto era come disintegrato , portato via dal vento, nulla sembrava essere stato distrutto perché nulla sembrava essere mai esistito, lo squarcio era impressionate si estendeva fino a Piazza Colonna, fino a lambire palazzo Chigi, esso sembrava ora un enorme casa di villeggiatura che si affaccia su di un promontorio proteso verso il mare, verso un mare in tempesta che difficilmente si sarebbe placato.
Pietre erano state sbalzate ovunque, la loggia centrale non esisteva più né al suo posto né altrove, il bugnato della parte inferiore era scomparso, finito, morto.
Lontana tra un fosso ed un altro, tra un masso e un altro, volteggiava , spinto dal vento, un enorme drappo, finalmente si posò. Era lacero e sudicio, ma ancora del tutto riconoscibile, era il tricolore italiano. Poco distante anche Palazzo Madama sembrava non essere mai esistito, al suo posto il nulla , solo parte dei muri perimetrali aveva resistito al boato, per il resto lo spettacolo era raccapricciante. Macchine accartocciate erano ovunque, lamiere contorte decoravano come macabri agghindamenti lo spazio circostante, la polvere copriva ogni cosa. Il tempo era morto, la morte aveva vinto.
Lo spettacolo che si presentava agli occhi del mondo era sconvolgente , quando i fari dei primi soccorsi si accesero sulle macerie , tra i massi ,le pietre e la storia, come semi sparsi sul terreno che attendono di essere sotterrati, migliaia di carcasse giacevano senza vita, corpi di uomini, donne e bambini decoravano quel paesaggio di morte e desolazione.
Il sangue unito alla polvere impastava ogni cosa, tingeva i mattoni , sporcava la coscienza di chi tanto aveva commesso, tanto male aveva arrecato all’Italia.
La puzza della morte penetrò l’aria, corpi erano ovunque, giacevano oltraggiati sul  fondo di quel cratere che probabilmente era davvero l’ingresso all’inferno, l’inferno è quello che ci creiamo, che generiamo con la consapevolezza di farlo, l’inferno era ora salito sulla terra. Il rosso delle vite spezzate, aveva dipinto Roma, il disonore della vita aveva oltraggiato anche la morte.
Lontano dalla strada che un tempo portava a Piazza Montecitorio due cadaveri giacevano sull’asfalto insozzato dalla polvere, il vento ne agitava i vestiti leggeri, fianco a fianco le due figure erano stese sul suolo, probabilmente erano state scaraventate dal terribile boato, avevano gli occhi della morte, senza vita, senza spirito, senza animo erano posate non lontano dal marciapiede.
Quella più vicina al centro della strada sembrava essere una bambina , piccola, molto piccola,  la sua mano destra era posata su quella della donna morta che le stava a fianco, probabilmente erano state sbalzate per molti metri , e la morte , in un ultimo infame sogghigno pietoso, aveva fatto in modo che quelle dita si incontrassero. La fanciulletta era forse figlia di quella donna morta, o forse non lo era affatto, forse non si erano mai conosciute, o forse quella bambina non aveva mai avuto madre e  quella donna non aveva mai avuto una figlia.
Un vecchio , accasciato poco lontano si sollevò , vagò per un poco e si fermo poi affianco a quelle due figure di morte, pianse come mai aveva pianto, si chinò e con la sua mano impolverata e sanguinante chiuse loro gli occhi avvolti dal sonno della morte.













Il sole invadeva la casa, riflesso dal marmo bianco della camera da pranzo, il bagliore estivo sembrava riflettersi sulle pareti circostanti. Si sentiva provenire , dall’esterno il rumore dell’erba alta accarezzata dal vento, anche gli albicocchi e i peschi , dalle foglie larghe e leggere agitavano i loro rami. Tutto sembrava danzare , all’unisono, tutto nella luce dell’estate.
In lontananza , oltre le ultime villette e casali che si intravedevano dalla stanza , poche macchine sfrecciavano, e come il ronzio improvviso d’un’ape fendevano il silenzio rotto armonicamente dall’orchestra della natura.
L’idillio sembrava circondare la casa bianca, era un bell’edificio , modesto per grandezza, si apriva su un giardino elegantemente decorato con piccole statue di creta e argilla, una piscina non eccessivamente grande. I muri perimetrali erano in buona parte ricoperti di fiori viola che si arrampicavano fino all’ultimo piano. Da uno dei piani inferiori si sentiva provenire un’allegra canzonetta estiva, una di quelle che ricordano le felici estati degli anni sessanta.
Proveniva da una piccola radio, posta su un tavolino in ferro battuto di stile caprese.
Poi d’improvviso come un temporale d’agosto che giunge  a ciel sereno un telefono prese a squillare, squillò per un minuto ,poi una voce maschile rispose.
-si - ,
 - con il primo ed il secondo ci siamo…-
- ho visto alla tv-
- avete fatto un ottimo lavoro, lo spettacolo è devastante non avrei mai pesato che fosse possibile arrivare a tanto, ora bisogna procedere … dimenticavo… quella telefonata che aspettavo è arrivata, ci incontreremo qui domani pomeriggio alle tre e mezzo.-
La comunicazione si interruppe, e l’uomo tornò a girovagare per la casa, accese il suo sigaro dell’Havana, sfumacchiò un po’ , poi tornò a sedersi




Quando Giuseppe era piccolo andava a scuola nel centro di Napoli, a piazza Dante c’era il convitto, la gente diceva che era una delle migliori scuole della città , ma lui ci andava solo perché lo avevano obbligato. In realtà non sapeva che i genitori lo mandavano lì per le agevolazioni di cui potevano beneficiare le famiglie meno abbienti come la sua. A lui la scuola non era mai piaciuta, non gli piacevano quelle aule , grandi e fredde, non gli piacevano i suoi compagni di classe, non gli piacevano i professori, ma come diceva la mamma a scuola ci doveva andare, perché non poteva fare il pescivendolo come zio Ernesto, o il pescatore come quello sfaccendato di Armanduccio.
Armanduccio era un pescatore del porto vecchio, uno di quelli che pescava più femmine che pesci, lui le orate le vendeva a poco prezzo ma dietro a quel bancone del mercato “uff e che ci combinava alle signorine”; un giorno Teresa , la figlia del barbiere di via Roma, andò lì a fare la spesa, tornò a casa quindici mesi dopo , con un bambino in braccio, uno nella pancia e nella mano sinistra la busta con il pesce che la mamma le aveva comandato di comperare.
Dei professori de Convitto uno era quello che Giuseppe “schifava proprio”, il professore Piscitello, era uno di quelli che a scuola ci andavano per terrorizzare e non per insegnare , di italiano , di latino o greco non ci capiva niente, ma il professore lì era lui , lui comandava e gli altri obbedivano. Era un uomo bassino , sulla sessantina, a breve sarebbe andato in pensione , portava gli occhiali colore oro, i pantaloni alti , e le camice con il panciotto, la giacca e se ci andava a genio  si metteva anche la cravatta. Le sue lezioni erano noiosissime, dettava , scriveva , interrogava, scriveva ,dettava , interrogava; per  non parlare poi dei suoi compiti in classe, ma a Giuseppe non importava , tanto lui non le studiava quelle cose , perché lui da grande voleva fare il carrozziere.
Maria , invece, era una ragazzina “ a modo” , le piaceva molto lo studio, frequentava un educandato non lontano dal centro della città, spesso rimaneva a dormirvi, ma , nella gran parte dei casi , preferiva tornare a casa.
Durante l’estate la famiglia si raccoglieva tutta ; al mare si andava poco, seppure Napoli fosse la più bella città di mare secondo papà Luigi; i mesi di luglio e agosto trascorrevano nelle campagne della provincia, tra albicocche e pomodori. Il mese di Agosto era senza dubbio quello più bello, la canicola estiva avvampava ovunque, l’umidità era altissima, ma i pozzi d’acqua gelata erano in ogni angolo , la nonna riempiva bacinelle di alluminio con l’acqua tirata su a forza ,e così ci si divertiva tra un bagno e l’altro, tra una capanna in mezzo all’erba alta, e la puntura d’un’ape. La famiglia di Giuseppe era una famiglia “di faticatori”, e quindi anche l’estate torrida diventava momento di lavoro, i signori andavano a “squaccheriare” nel mare di Portici, quelli più ricchi a Positano o Sorrento, ma loro erano gente umile e andare in quelle località costava troppo; per la famiglia di Giuseppe e per molte altee come la sua Agosto era il tempo delle passate di pomodoro. Si lavorava senza tregua anche per due settimane, la raccolta, la pulitura, la macina , l’imbottigliamento; senza quel nettare non ci sarebbe stato il ragù della nonna, e maccarun e mammà, senza quella fatica le estati di quell’infanzia spensierata non sarebbero rimaste tanto impresse nella mente di Giuseppe, non sarebbero riaffiorate con tanta foga, in quei momenti tanto difficili , in quell’estate così particolare per il presidente.
La macchina correva , correva , correva…poi svoltava…poi riprendeva a correre…poi …il  buio.












Il presidente non capiva, non poteva capire, non doveva…erano gli altri che avevano scelto per lui , era lui l’unico uomo adatto, lo avevano compreso sin dalla sua elezione, e lui non poteva immaginare che fosse il predestinato, lui con quella sua storia politica così particolare, con quel suo modo di fare così fuori dal comune per un Presidente.
Ora intorno all’auto era tutto buio, terribilmente buio, l’oscurità sembrava insinuarsi prepotente in ogni spazio del veicolo , non poteva essere un rapimento…o forse poteva, ma sicuramente no…perché rapirlo…per riscattare chi , per riscattare cosa. Denaro ..forse. L’auto era guidata dal suo autista, aveva avuto sino a pochi secondi prima i suoi auricolari nelle orecchie, in tasca conservava ancora il telefono cellulare e il palmare…dunque? Perche la frenata improvvisa, perché quella sterzata, mai in nessuna esercitazione era avvenuta una cosa del genere,…perché il buio?
L’auto prese a sobbalzare e in lontananza iniziò a intravedersi una luce , si faceva sempre più vicina fino a quando il rumore delle pietre sotto le ruote si fece assordante , poi una nuova sterzata, poi il silenzio.
Era incredibile, il Presidente era sbalordito, non poteva essere vero. Da quando l’oscurità aveva avvolto la macchina in  modo impenetrabile, non aveva potuto scorgere nulla, aveva pensato che lo stessero conducendo attraverso qualche rampa sotterranea, che sarebbero sbucati in un enorme capannone, invece no, erano di nuovo sotto il cielo stellato di Roma, la luce era quella della luna , quella luna che di punto in bianco si era trasformata nel simbolo d’un estate di sofferenza , dolore per la nazione e per il mondo. Non impiegò molto tempo per comprendere dove fosse , alle loro spalle vi era un muro altissimo, che sembrava germogliare dall’erba e dalla vegetazione circostante, non lontano la struttura dell’edificio rompeva la linea retta per incurvarsi, Giuseppe alzò gli occhi in alto, intravide la celebre figura dell’angelo che sormonta il castello che si staglia dalla parte opposta a San Pietro. Si trovavano nel fossato di Castel Sant’Angelo, non sapeva come ci fossero arrivati , fatto sta che la macchina riprese a muoversi sulle pietre e a correre più veloce di prima, si rivolse all’autista ma questi non rispose , nemmeno il suo assistente lo fece, provò a insistere, una risposta la ebbe. Cadde supino sul sedile dell’auto presidenziale. Avrebbe continuato il viaggio dormendo, come faceva da bambino quando raggiungevano la casa in campagna della nonna .

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